Non di solo pane vive il videogiocatore“, che nel modello moderno (il più stereotipato possibile, si intende) è frequentemente dipinto come un individuo che si lascia “bacare il cervello” da tutto ciò che gli scorre su schermo senza un minimo di coscienza critica. Una rappresentazione del genere è già stata ampiamente criticata da un gran numero di esperti del settore, e non è certo questa la sede per appoggiare o sfatare un argomento simile; tuttavia, la questione della censura nei videogiochi è un tema piuttosto caldo in qualunque decennio ci si possa trovare, un tema che abbraccia violenzarappresentazione della figura femminileimmagini sessualmente spinte.

Che si parli di Giappone, Australia, Germania o qualunque altra parentesi mondiale, la “censura videoludica” mostra i suoi mille volti periodicamente nel campo dell’intrattenimento virtuale, ogni volta con sfumature di significato e contenuto diverse. Uno degli esempi più eclatanti, in questo senso, è stato dato di recente da Nintendo, con gli emblematici casi di censura per Fire Emblem FatesBravely Second: End LayerTokyo Mirage Sessions #FE.

 La mano ferma della (in)giustizia
Gli ultimi casi “eclatanti” di censura vengono dalla società madre di Mario e Link
Negli ultimi mesi, quando si parla di censure, la prima cosa che viene in mente è Nintendo. Non certo per cattiveria, ma gli ultimi casi “eclatanti” di censura vengono proprio dalla società che ha dato i natali a Mario e Link, o meglio dalle sue divisioni occidentali.

Nell’ultimo anno abbiamo avuto a che fare con due tipi di censura, da parte della casa nipponica: quella per nudità e quella per i contenuti. La prima, per quanto apparentemente insensata nel 2016, è condivisibile per una serie di motivi tra cui il rating (il PEGI, ad esempio, fa molta attenzione a queste cose e dà sempre valutazioni molto alte in base ai contenuti) e la mentalità, che, in alcuni casi, non è al pari (videoludicamente parlando) con quella dei nostri cugini giapponesi.

La guerra alla nudità è iniziata in casa Nintendo con Project Zero: Maiden of Black Water, dove a essere censurati sono stati dei costumi in lingerie (tra cui uno in una scena fondamentale per la trama). La compagnia si è scusata dandoci degli outfit esclusivi, ispirati a Samus Aran o Zelda. Stessa sorte è toccata a Xenoblade Chronicles X, che ha visto censurati i costumi di Lin (con anche un aumento dell’età per non farla apparire come una bambina) e rimossa la possibilità di creare un avatar femminile con un grosso seno (perché ovviamente i ragazzi di oggi non sanno dove cercarli e si affidano a un videogioco), eliminando il selettore della taglia.

Mentre questi casi sono passati un po’ in sordina e non hanno creato scompiglio, nel 2016 c’è stata la definitiva esplosione del fenomeno con Bravely Second: End Layer, uscito a Febbraio in Europa e ad Aprile negli Stati Uniti. Qui, rispetto alla versione Giapponese, sono stati censurati diversi costumi (a questo link troverete la lista completa, purtroppo in lingua inglese) riducendo – per esempio – la quantità di pelle scoperta mostrata da Magnolia, sono state cambiate le quest secondarie e sopratutto è stata cancellata la classe Tomahawk (che rappresentava un pellerossa) e cambiata con l’Occhio di Falco (rappresentante un cowboy/cowgirl) per non precisati motivi, anche se, si pensa, sia stato per non offendere il popolo dei nativi americani. A causa di queste censure, immotivate secondo i giocatori, c’è stata la definitiva condanna al Treehouse, divisione che si occupa della traduzione e della localizzazione dei titoli Nintendo, e di Alison Rapp, la quale è stata additata dai giocatori come la fautrice principale delle censure di cui abbiamo parlato prima. Ciò ha portato grossi gruppi di videogiocatori a lamentarsi a gran voce, tentando di boicottare le uscite successive.

 

Fire Emblem Fates ha quasi dato il via a una rivoluzione
Fino ad ora abbiamo parlato delle censure per le nudità (anche se con Bravely Second abbiamo iniziato a toccare altre corde), ma ci son stati due casi particolari che hanno fatto “scattare la molla” nei giocatori americani: Yo-kai Watch e Fire Emblem Fates. Mentre per il primo, complici le vendite non esaltanti nel mercato USA, non si è registrato tanto clamore, per il secondo (sempre ad opera di Alison Rapp) siamo arrivati quasi a una rivoluzione: molti utenti (che hanno giocato a una localizzazione fatta da altri amanti del titolo) hanno deciso di creare una galleria di immagini chiamata “Treehouse Lolcalization” (composta da più di 100 immagini) che mostra le differenze tra la versione giapponese e quella occidentale. Si è notato che il senso di quasi tutto il gioco è stato cambiato nella localizzazione occidentale, rendendo l’atmosfera complessiva molto più banale e bambinesca.

Reduci dal grande fallimento con Fire Emblem Fates, Nintendo ha deciso di far localizzare in inglese da Atlus (che ha sviluppato il gioco) uno dei titoli più attesi dai fan dei JRPG: Tokyo Mirage Sessions #FE. In questo caso la censura, ugualmente presente, si riduce soltanto a modifiche su alcuni abiti e sull’inclusione di meme all’interno del gioco (come in The Legend of Zelda: Tri Force Heroes), come avevamo già evidenziato in un altro articolo.

 

Censura nei Videogiochi

 

Il Giro del Mondo in 80 Censure
A una prima, disattenta occhiata, il lettore potrà pensare che il Giappone sia accostabile a una sorta di “Paradiso della libertà di espressione” (almeno sul lato artistico), un posto in cui l’esposizione di una parte intima in un qualsiasi media viene visto come perfettamente normale e, anzi, agevolato in tutti i modi possibili. Le politiche di censura degli sviluppatori Nintendo al di fuori del Giappone, in fondo, farebbero logicamente pensare a uno scenario del genere; tuttavia, la Terra del Sol Levante è ben lontana dall’essere un luogo in cui i birilli possono danzare allegramente sui davanzali senza incorrere in conseguenze di alcun tipo.

Un “Paradiso della libertà di espressione”?
Se è vero che il Giappone ha mantenuto stabilmente la fama di un posto splendido in passato, adesso la cosa sta iniziando a ridimensionarsi gradualmente. La versione nipponica dell’originale Resident Evil, ad esempio, era decisamente molto più violenta nella sua edizione orientale, con teste mozzate e addirittura l’apparizione di una sigaretta nell’intro del gioco (elementi che sono stati rimossi entrambi dalla controparte occidentale), ed è altrettanto vero che la mentalità generale dei giapponesi permette una sorta di libertà “maggiore” per quanto riguarda i videogiochi e l’espressione “artistica”; nel corso del tempo, però, si è andata affermando in Giappone la cosiddetta “Classificazione CERO“, che corrisponde sostanzialmente al PEGI europeo / americano e all’ESRB britannico con una piccola, apparentemente insignificante differenza: oltre a utilizzare (nella notazione attuale) le lettere dalla A alla D per classificare i contenuti (dove la A corrisponde a un titolo adatto a tutti e la D a un’età dai 17 anni in su), il CERO ha introdotto anche il “Grado Z”, che viene posto su tutti quei titoli che non possono essere venduti nei negozi fisici in giro per il Giappone.

Il canale Censored Gaming (che ricorrerà spesso nel corso di questo articolo), ha realizzato una serie di video in proposito per “sfatare” il mito della censura assente nella terra più Kawaii che ci sia, di cui riportiamo di seguito il primo episodio:

 

La questione della censura nei videogiochi è presente anche in terra nipponica…
Chi pensava che il Giappone fosse un luogo bellissimo e pieno soltanto di fiori di pesco, dunque, potrebbe rimanere spiacevolmente deluso: la questione della censura nei videogiochi è presente anche in terra nipponica, e lo testimonia il fatto che non è consentito mostrare esplicitamente parti intime sullo schermo, sia che si tratti di una visione frontale che di un semplice fondoschiena (come nella scena della doccia all’inizio di Heavy Rain). Grand Theft Auto V di Rockstar Games, nello specifico, ha visto un gran numero di censure in terra nipponica, dove i rapporti sessuali con le prostitute all’interno del gioco Rockstar sono stati palesemente modificati (cambiando la visuale della telecamera) e alcune scene filmate hanno visto una censura sostanziale anche piuttosto consistente (si pensi alla celebre scena della tortura con Trevor o al momento in cui lo stesso Trevor abbassa i pantaloni, mostrando le sue parti intime a un altro personaggio).

Ancora, si potrebbe citare il celebre caso di Dying Light di Techland: il colore del sangue all’interno del gioco è stato cambiato dal rosso al verde, in Giappone, nel tentativo di “distaccare” la figura degli zombie da quella degli umani “comuni” all’interno del gioco. Questo, tuttavia, ha portato ad alcune situazioni a dir poco “curiose”, come una stanza piena di sangue verde perso da un umano – non infetto che si era semplicemente ferito a un braccio (scena che è stata corretta nella successiva versione Enhanced di “The Following, pur presentando ancora alcuni piccoli errori visivi).

Al di là di questioni relative alla violenza grafica o a eventuali “problemi” di tipo morale, il Giappone è però noto anche per aver causato la modifica di un altro, celeberrimo videogioco nel passaggio dal primo al secondo capitolo della serie, questa volta per un problema di tipo sociale: in Oddworld: Abe’s Exoddus, alcuni avranno notato che tutti i compagni Mudokon di Abe (Abe compreso) si ritrovano ad avere tre dita invece delle quattro presenti in Abe’s Oddysee. Le ragioni di questa scelta sono esposte con chiarezza in una lunga pagina di F.A.Q. su OddworldLibrary.net:

 

Il motivo di questo cambiamento risiede in una scelta degli Oddworld Inhabitants, ai quali fu suggerito che sarebbe stato difficile vendere personaggi con quattro dita sul mercato giapponese, perché avrebbero rischiato azioni legali da parte di certi gruppi di liberazione che non volevano vedere l’apparizione di personaggi umanoidi con quattro dita in Giappone. (…) In Giappone esiste un gruppo sociale di minoranza (che vede ancora una certa discriminazione) noto come “Burakumin”, composto da discendenti di un’antica casta chiamata “Eta”. Gli Eta lavoravano spesso in condizioni legate alla morte, ad esempio come boia, macellai o lavoratori del cuoio e delle pelli animali, e la visione Buddhista e Shintoista sulla morte li metteva in una posizione “indesiderabile”. Un gesto con quattro dita è diventato facilmente un insulto verso tutti quelli che lavoravano con gli animali morti (Oddworld Inhabitants ha suggerito che questo gesto potesse essere relativo ad eventuali incidenti di lavoro, ma è più probabile che sia legato alle quattro zampe degli animali).

 

… Ma non è solo censura legata alla morale collettiva
Non solo censura “artistica” legata alla morale, dunque, ma anche qualcosa di decisamente più “serio” sul campo social-culturale. E, tuttavia, quello di Oddworld Inhabitants resta comunque un caso piuttosto isolato, con i primi esempi citati in apertura che prendono sempre più piede (in terra nipponica, ma non solo) nel campo dei videogiochi contemporanei. Spostandosi più in basso di un paio di gradi di Latitudine, la situazione sembra cambiare davvero poco: l’Australia è forse uno dei Paesi più problematici per quanto riguarda la censura, e non è necessario andare troppo lontano nel tempo per rendersene conto. Uno dei casi più recenti di censura videoludica in Australia è relativo, ad esempio, al caso di Paranautical Activity, censurato nella Terra dei Marsupiali perché conteneva “un utilizzo della droga per scopi positivi” (sostanzialmente una pillola dal nome troppo simile a una droga che dava un power-up al personaggio principale), o quello di Hatred, censurato sia in territori australiani che in territori tedeschi per l’eccessiva violenza mostrata nel corso del gioco.

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