Un anno di uscite improbabili di cui ci si era quasi dimenticati. Un anno di conferme da parte team storici e di sorprese da parte di qualche esordiente, di delusioni più o meno telefonate e di ritorni inaspettati. Un anno insomma, questo 2016, che è m
olto difficile raccontare avendo a disposizione solo 10 posizioni di una classifica (e un paio di extra,
perché ormai lo sapete che ci piace barare), fatto di serate passate davanti alle immagini in movimento dello schermo del televisore o al bianco digitale di un documento Word, facendo ordine tra le sensazioni residue per riempire quello spazio vuoto (o al contrario, riempire lo spazio per metabolizzare l’esperienza pad alla mano). Come ogni anno da che I Love Videogames è online però bisogna provarci, ed eccoci quindi a preparare questa top 10 2016, con le solite avvertenze riguardo al fatto che quanto segue è il parere personale di chi sta scrivendo: se cercate qualcosa che abbia una parvenza di istituzionalità vi rimandiamo alla
Ilovevg Selection, in caso contrario fuoco alle polveri e via con la tradizionale classifica che non le manda a dire.
Goie e dolori, come nel caso di Mafia II: resta comunque un titolo da giocare prima o poi
Mafia II era un gioco che, come già detto nella
mia recensione, non era sicuramente esente da difetti. Un’esperienza da bastone e carota, che inseriva meccaniche di guida dannatamente ben realizzate in un contesto open world sterile e praticamente vuoto. Nonostante tutto è ancora oggi una delle esperienze della passata generazione che ricordo con più piacere e consiglio di recuperare assolutamente, per cui era inevitabile avere una badilata di aspettative per Mafia III.
Badilata che si è poi tradotta in una serie di conferme, specie alle voci “narrazione” e “atmosfera” (dove non si può dire che Hangar 13 abbia centrato il bersaglio e anzi, Mafia III se la gioca alla pari con il capitolo dedicato a Vito Scaletta) e in un open world con finalmente una sua ragione di esistere,
ma che però ha sbattuto fortissimo sulla faccia del giocatore andando ad analizzare aspetti come ad esempio il ritmo di gioco, che dopo un certo numero di ore passate a New Bordeaux scade nel ripetitivo, e dal punto di vista tecnico. E, purtroppo, del sistema di guida tanto amato sulle strade di Empire Bay non se ne trova traccia, andando a semplificare delle meccaniche che sarebbe stato bello riproporre quantomeno a livello di opzioni (
capisco che possa scocciare dover riparare l’auto o andare a fare benzina quando il serbatoio langue, però erano cose che si poteva anche decidere di non tagliare in toto). Ancora una volta gioie e dolori, e ancora una volta nonostante tutto mi ritrovo a consigliare il titolo 2K, anche solo per lo splendido utilizzo fatto della tecnica del mockumentary per raccontare le vicende.
Una delle migliori trasposizioni in videogioco dell’idea di Librogame
Una delle sorprese di cui parlavo in apertura è sicuramente il titolo Spearhead Games. Stories va in pratica a riprendere l’idea dietro il Librogame e la fa sua, confezionandola in modo che non rappresenti una storia a bivi da portare avanti con un approccio trial & error,
ma facendo in modo che ogni partita giocata (in pratica, ogni storia) permetta al giocatore di imparare una delle quattro Verità che il gioco nasconde, fondamentali per poter giocare alla fine l’ultima run in modo da arrivare al vero finale dell’opera. A corredo ci sono poi dei personaggi abbastanza solidi, una voce narrante che da sola vale il prezzo del biglietto e un aspetto visivo (firmato Unreal Engine 4) davvero ben realizzato. E allora perché si parcheggia solo in nona posizione?
Perché fondamentalmente dal punto di vista del gameplay le meccaniche sono un po’ troppo abbozzate e non riescono a tenere il passo con quanto di buono fatto sotto gli altri fronti. Un peccato, ma che a questo punto mi lascia in attesa di qualche altra novità da parte di Spearhead Games.
Dead Nation con il pepe al c**o, come detto nel verdetto
Housemarque ormai è una garanzia. Pur non avendo a disposizione budget esorbitanti i finlandesi hanno tolto le castagne dal fuoco a Sony (e a PlayStation 4) spesso e volentieri, ad esempio varando alla grande il lancio della home console Sony con lo splendido
Resogun. Alienation durante la sua presentazione c’era sembrato una sorta di
Dead Nation con gli alieni: affermazione essenzialmente vera, ma anche essenzialmente riduttiva, visto che preso Dualshock 4 in mano
il ritmo di gioco è tremendamente più alto (salutando tutte le velleità da survival di Dead Nation) e, senza troppi giri di parole, divertente. Soprattutto poi se si decide di “farsi del male” e aumentare la difficoltà di gioco, disattivare i checkpoint abilitando la modalità Sanguinario e/o giocare il tutto assieme a qualche amico. Ci fosse stata la possibilità di giocare il tutto in co-op locale già al lancio (
l’aggiornamento con la tanto agognata feature è arrivato solo in estate, a qualche mese dal lancio) molto probabilmente la recensione sarebbe stata anche più generosa e Alienation sarebbe finito nella nostra Selection di quest’anno.
Cacciate sti 5 euro, ne vale la pena
Primo (e per il momento unico) caso in cui sono stato costretto a consigliare l’acquisto del titolo prima di leggere la recensione (ed eventualmente insultarmi). Perché
cercare di raccontare Pony Island a parole va inevitabilmente a svelarne e a svilirne una parte del fascino, andando un po’ a guastare il gusto di un’esperienza originale e fuori dagli schemi come non se ne vedevano da un po’. Con le dovute proporzioni, raccontare Pony Island sarebbe come spiegare ad un profano perché la boss-fight contro Psycho Mantis nel primo Metal Gear Solid è ancora oggi uno dei manifesti di quell’anticonformismo che associamo al tocco di Hideo Kojima. Per cui di nuovo
l’invito è quello di andare su Steam e regalare questi 5€ a Daniel Mullins (autore del gioco), e poi eventualmente venirmi a cercare sotto casa se non vi è piaciuta l’esperienza.
La solita storia di amore ed odio tra me e tutto quello che riguarda Nintendo
Si può arrivare sulle soglie dell’odio nei confronti di un titolo, anche se il titolo in questione ti è piaciuto da matti (e non a caso è sesto in questa top 10)? Quando sulla copertina c’è scritto Nintendo nel mio caso non è solo possibile, ma anche probabile. E quando al nome del colosso di Kyoto si aggiunge quello di Game Freak spesso e volentieri diventa una certezza. Cerchiamo di spiegare meglio: Pokémon Sole e Luna riescono in una manovra che X e Y avevano tentato ma non completato appieno e, volendo esprimere il concetto con una certa cattiveria,
sono il primo tentativo riuscito di far diventare la serie Pokémon un vero e proprio RPG. Cutscene e filmati, personaggi dalla psicologia più delineata (anche se va detto che “barano” e raggiungono il risultato soprattutto grazie al maggior tempo su schermo che gli è concesso), sotto-quest e veri e propri boss portano una vera e propria ventata d’aria fresca in una formula che ormai rischiava di puzzare di stantio. Il problema, o meglio i problemi, sono però essenzialmente due. Da una parte gran parte di queste novità è inserita “all’acqua di rose”, senza esagerare e tradendo spesso e volentieri una certa pigrizia (
o forse a questo punto sarebbe più corretto parlare di incapacità) da parte degli sviluppatori. Dall’altra, Game Freak ha impiegato sette generazioni ad arrivare a questo punto, e praticamente per tutto il ciclo vitale di Nintendo DS non ha proposto nessuna novità davvero di sostanza. Qualunque altra software house in questa situazione sarebbe stata presa a pesci in faccia dall’utenza (anche a torto, vedi per esempio alla voce Ubisoft), ma sulle macchine della casa di Kyoto non succede mai. Questa volta posso anche starci, visto che complessivamente Sole e Luna risultano essere due tra i migliori capitoli della serie, ma (soprattutto visto che il prossimo titolo probabilmente uscirà su Switch)
bisogna iniziare a fare di più, altrimenti guai a chi urla al capolavoro.
L’esperienza online dell’anno
Ho
già avuto modo di dire come il 2016 sia stata un’annata davvero d’oro per il genere Sparatutto, come non se ne vedevano da anni. Non solo per la quantità delle uscite, ma anche e soprattutto per il livello qualitativo che queste hanno raggiunto.
Overwatch è stato senza dubbio uno dei protagonisti di questa esplosione, con Blizzard capace di mettere sul piatto uno sparatutto “alla Team Fortress 2” che però, pad alla mano, risultasse una versione decisamente più grande e cattiva del titolo Valve. Il risultato porta su schermo tantissimi eroi diversi, con un bilanciamento tenuto costantemente sott’occhio (e anche qualche
new entry già messa a bilancio) e in definitiva tanto lavoro, in massima parte sempre ben fatto, da parte della casa madre. Un titolo che era già solido al lancio e che in questi mesi ha fugato i pochi dubbi residui che erano rimasti, lasciando solo il solito rimpianto dovuto al tempo da dedicare a titoli del genere, che purtroppo è sempre meno.
#LiveTheRebellion