Forse alcuni di voi non avranno mai sentito parlare della dissonanza ludonarrativa. Un termine altisonante, probabilmente creato per riempire la bocca a qualche sommelier dei videogiochi. Ma nonostante il termine possa sembrare astruso e ricercato, l’esperienza che ne racchiude il significato è purtroppo più comune di quanto si possa immaginare.

Uncharted: Drake’s Fortune. Finalmente iniziate a giocare alla tanto decantata saga di Naughty Dog, che con piacere potete gustare in una veste tutta nuova all’interno della remastered per PS4 dei Bluepoint Games. Empatizzate fin da subito con Nathan, un amabile e simpatico cercatore di tesori, amante dell’avventura e delle leggende di antiche civiltà. Solare e divertente, tiene molto ai suoi compagni di avventura, soprattutto al suo mentore Sullivan, che lo aiuta e lo segue nelle sue spericolate avventure.

Dopo un rocambolesco assalto dei pirati, vi mettete in marcia per ritrovare il mitico tesoro di El Dorado, aiutati ovviamente da Sully e dalla giornalista Elena Fisher. Ma dopo aver superato pareti rocciose e crepacci, risolto qualche enigma ambientale ed esplorato ogni anfratto di un vecchio sottomarino arrugginito, incontrate per la prima volta quello stronzo di Gabriel Roman. Ed è da qui che le cose iniziano a farsi davvero strane. Non ve ne accorgete subito, ma dopo aver imbracciato un AK-47 e fatto strage degli scagnozzi di Roman, in voi inizia a farsi strada una sgradevole sensazione. Una sensazione che aumenterà a mano a mano che vi farete strada attraverso una montagna di cadaveri per raggiungere il vostro obiettivo. Trovare un tesoro. Un tesoro che costerà la vita a decine e decine di persone.

Ecco a voi la dissonanza ludonarrativa.

Bioshock e l’oggettivismo randiano

Bioshock recensione
Per approfondire:
BioShock
Il primo che teorizzò questa discrepanza tra gameplay e narrazione all’interno di un videogioco, fu il game designer canadese Clint Hocking. Giocando al capolavoro Bioshock, notò una forte contraddizione tra il messaggio che la storia voleva veicolare al giocatore e le azione che quest’ultimo poteva effettivamente fare. Il tema cardine del gioco di Ken Levine è l’oggettivismo randiano, teoria nata dalla filosofa e scrittrice russo-statunitense Ayn Rand. Tale teoria basa le proprie fondamenta su un tipo di egoismo morale, volto ad accrescere l’individuo senza danneggiare gli altri. Secondo Rand, l’altruismo è un’ideologia sbagliata perché obbliga l’individuo ad aiutare gli altri quando quest’ultimi, attraverso l’ambizione, la razionalità, l’onestà e la produttività, sono perfettamente in grado di affermarsi da soli. Così facendo, ognuno contribuisce a creare una società progressista e inclusiva, perché:

I diritti individuali non sono soggetti a un voto pubblico; una maggioranza non ha alcun diritto a eliminare col voto i diritti di una minoranza; la funzione politica dei diritti è precisamente quella di proteggere le minoranze dall’oppressione delle maggioranze (e la più piccola minoranza sulla terra è l’individuo).

Ayn Rand, La virtù dell’egoismo

Rapture come simbolo dell’estremo oggettivismo randiano…

Rapture non è altro che il simbolo di questa estrema oggettività, ambizione ed egoismo e Levine ci mostra come sarebbe un futuro costruito solo attraverso questi dettami. Una città in rovina, pullulante di uomini e donne che hanno completamente perso la loro umanità e, soprattutto, la loro tanto amata razionalità. Ma per poter sopravvivere ad una tale città infame, siamo a nostro mal grado spinti a combattere il fuoco con il fuoco: usare l’ADAM. Tale potenziamento non solo ha un forte significato sul piano narrativo, ma permette al gameplay di evolvere e di rendere interessante Bioshock anche sul piano ludico.

Bioshock Infinite recensionje
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Una forte contraddizione dunque che l’autore vuole farci provare, la quale culmina con la decisione di salvare o meno le sorelline. Ma ecco la dissonanza ludonarrativa: per poter proseguire con la storia, dovremo anche obbligatoriamente aiutare Atlas. Ecco che la tanto ricercata contrapposizione etica voluta da Levine perde completamente il suo significato sotto le esigenze del gameplay. Per proseguire con la storia dobbiamo seguire l’oggettivismo randiano, arraffare più ADAM possibile e uccidere qualsiasi persona si frapponga tra noi e la salvezza. Ma al contempo siamo obbligati a essere altruisti nei confronti di Atlas e l’altruismo, come esposto sopra, non era ben visto da Ayn Rand.

Un progetto nato per armonizzare

Si, la dissonanza ludonarrativa trovata da Clint Hocking è davvero sottile e probabilmente un po’ forzata, come lui stesso ammette. Ma da allora, il termine è stato ripreso più volte dalla critica videoludica per indicare lo scollamento tra finalità ludiche e necessità narrative. E tale scollamento purtroppo avviene molto più spesso di quanto pensiamo. Perché per rendere interessanti entrambi gli aspetti, i designer e gli sceneggiatori sono spesso costretti a intraprendere due strade diametralmente opposte.

I designer e gli sceneggiatori sono spesso costretti a intraprendere due strade diametralmente opposte

Emblematico è appunto il caso di Uncharted. La narrazione, attraverso le cutscene, ci presenta un Nathan bonaccione, che evita sempre lo scontro sia fisico che verbale. Ma non appena il controllo ritorna al giocatore, la magia si scioglie completamente e veniamo costretti a guidarlo attraverso molteplici scontri a fuoco dove i morti non si contano. E tutto questo solamente per esigenze di gameplay, altrimenti sarebbe risultato l’ennesima copia di Tomb Raider. Singolare è il fatto che proprio il nuovo capitolo di quest’ultimo nel 2013, per adeguarsi allo stile action-adventure inaugurato da Uncharted, incappò nella stessa identica dissonanza ludonarrativa.

The Last of Us Remastered
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Ma è proprio per superare definitivamente tale discrepanza che nasce il progetto The Last of Us. Naughty Dog, preso atto del profondo disaccoppiamento avvenuto con Uncharted, decise fin da subito di armonizzare storia e gameplay. Prende vita dunque un’ambientazione post-apocalittica, decadente e selvaggia, dove l’imperativo mors tua vita mea è l’unica legge che conta. Questo, unito al fatto che Joel per sopravvivere negli anni ha dovuto mettere in discussione più volte la propria moralità, permette a The Last of Us di godere di un gameplay aggressivo, senza incorrere nella tanto temuta dissonanza. Ma nemmeno quest’ultimo è perfetto.

the last of us dissonanza ludonarrativa

Il diavolo si annida nei dettagli

Pensateci: l’obiettivo principale del gioco è scortare Ellie fino all’ospedale di Salt Lake City, dove le Luci potranno sintetizzare grazie a lei un vaccino. Proteggere Ellie dunque è il nostro imperativo categorico, ma ludicamente parlando non risulta affatto così. Per andare incontro alle meccaniche stealth e ad una ancora claudicante intelligenza artificiale, Ellie è invisibile e immortale. Non può effettivamente morire, dunque tutto il pathos creato attorno al sentimento di protezione paterno di Joel, crolla inesorabilmente pad alla mano.

Certo, questa dissonanza ludonarrativa non è assolutamente paragonabile a quella di Uncharted. È molto più fine e subdola e, a parte per una leggera interruzione del flusso emotivo (quando Ellie scorrazza davanti ai clicker e questi rimangono impassibili ad esempio), è ampiamente perdonabile. Perché al di là di questo piccolo neo, è evidente come Naughty Dog abbia cercato di armonizzare il più possibile narrazione e gameplay. Ed è per questo che oggi tutti noi consideriamo The Last of Us come uno dei migliori giochi della sua generazione.

Ma è con The Last of Us Parte II che Naugthy Dog decide di rasentare la perfezione. Le ultime fatiche di Ellie rappresentano, per chi vi scrive, uno dei punti più alti di realismo offerto al giorno d’oggi da un videogioco non simulativo, definendo un nuovo standard qualitativo per tutta l’industria. E al di là delle evidenti qualità tecniche, che contribuiscono non poco a rendere il mondo di gioco di un realismo sconcertante, è sulle sue meccaniche che è interessante soffermarsi.

The Last of Us Parte II ha definito un nuovo standard qualitativo…

Per ripulire il gioco anche da quella piccola dissonanza sopracitata, Naughty Dog ha notevolmente migliorato l’intelligenza artificiale alleata, la quale presenta ora una gestione più realistica dei compagni d’avventura. Ogni alleato che ci affianca durante il nostro percorso di vendetta, non scorrazza più davanti al nemico rimanendo invisibile, ma resta il più delle volte ben nascosto dietro le coperture. Anche i nemici umani risultano essere più furbi e accorti. Ora riescono a notare arti e armi che fuoriescono dai nascondigli e la nostra sagoma nell’erba alta. Inoltre, sono decisamente più aggressivi rispetto al primo capitolo. Durante uno scontro a fuoco, non restano barricati dietro alle loro coperture, ma ci aggirano e ci accerchiano quasi subito.

Ancora più interessante è l’escamotage trovato per giustificare gli upgrade di Ellie. I potenziamenti non sono più presenti fin da subito nell’albero delle abilità. Essi vengono sbloccati a mano a mano che troveremo i giusti manuali all’interno del mondo di gioco. Questo permette di giustificare le complesse tecniche di sopravvivenza apprese da Ellie, altrimenti impossibili da assimilare in un viaggio quasi in solitaria dalla durata relativamente breve.

Questi sono solo alcuni dei macro aspetti che concorrono per rendere il mondo e le meccaniche di The Last of Us Parte II altamente verosimili. Ma come ben sappiamo, il diavolo si annida nei dettagli e Naugthy Dog ne ha uno per capello. Come la gestione dell’inventario per esempio. Tutto ciò che Ellie può portare con se è ciò che effettivamente le vediamo addosso a schermo. Ogni arma, ogni componente, trova la sua reale collocazione, infilandosi in apposite fondine, lacci o all’interno dello zaino stesso. O ancora il posizionamento dei collezionabili e delle ricariche. Non troveremo mai proiettili per terra o lungo la strada, a meno che non siano accompagnati da una cadavere rinsecchito che li ha persi prima di morire. La posizione di ogni oggetto è contestualizzata fin nei minimi particolari. Soprattutto per quanto riguarda i collezionabili, mai posti a casaccio alla fine di oscuri tunnel chiusi.

Una comunione d’intenti

Chi di voi ha giocato o sta giocando all’ultima fatica di Naugthy Dog, sicuramente vorrà ora volgere una critica. Si, è vero, Druckmann non è riuscito a giustificare ogni cosa, a mantenere costante quella tanto agognata immersione emotiva. Penso ad esempio al super udito di Ellie, il quale, come Joel nel primo capitolo, le permette di sapere la posizione dei nemici anche dietro agli ostacoli visivi. O ancora, ai vari upgrade delle armi, tutti derivanti da viti trovate qua e là su polverosi scaffali o vecchie cassette degli attrezzi arrugginite. Ma a questo punto vi chiedo: abbiamo davvero bisogno di tutte queste giustificazioni?

Perché l’unico modo che ha un videogioco di raccontare una storia verosimile, mantenendo le distanze dalla dissonanza ludonarrativa, è quello di sacrificare il proprio gameplay. Sacrificare completamente tutte quelle meccaniche che rendono un videogioco degno di essere chiamato tale, per sfociare in meri programmi simulativi. No, non si può immolare il puro divertimento ludico per avere un narrazione più ricercata. Perché se è grazie alle storie che possiamo elevare il videogioco allo stato di arte, esso trova la sua vera ragion d’essere principalmente nel piano ludico. Sta dunque ai suoi creatori l’arduo compito di amalgamare narrativa e gameplay, senza che l’uno prevalichi l’altro.

In una continua comunione d’intenti, che tanto ci fa emozionare.

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