Con il passare del tempo e con l’evolversi del linguaggio videoludico, la narrativa è diventata un elemento sempre più importante all’interno del nostro medium preferito. Agli sgoccioli di questo 2016, non possiamo che constatare come, al giorno d’oggi, l’industria del videogioco si posizioni tra i media più floridi dal punto di vista narrativo: in un periodo in cui Hollywood continua a proporre adattamenti di fumetti e di libri, remake, prequel e sequel, le grandi software house riescono ancora a presentare sul mercato nuove IP dal forte impatto narrativo, che si parli di prodotti ad alto budget o di titoli indipendenti.

La domanda è quindi d’obbligo: la corsa ai contenuti e all’open world cui stiamo assistendo oggi danneggia la narrativa nei videogiochi?

 

 

Per rispondere all’interrogativo abbiamo deciso, come ormai d’abitudine, di far risuonare tutte e due le campane, con un Luca Mazzocco selvatico a far parte del #TeamCorridoi per i videogames dal forte impatto narrativo (anche a discapito della libertà di gioco), e un magico Pietro Iacullo per il #TeamPraterie, schierato a favore di quei titoli capaci di coinvolgere nonostante le aree (talvolta pure troppo) vaste. Siete pronti? Si comincia!

Di tempi, ritmi e altri concetti narrativi

Gli aspetti che rendono grande lo storytelling per Luca Mazzocco

 

Il ritmo è un fattore chiave, anche più della storia in sé… E in un contesto Open World, rallenta
Per voi, cosa è più importante all’interno del comparto narrativo di un videogame? Può sembrare una domanda banale, ma quando si ha a che fare con una storia di qualsiasi tipo bisogna cercare di analizzarla sotto tutti i punti di vista. Basta una trama ben costruita per rendere avvincente il tutto? Che importanza hanno i personaggi e i loro relativi dialoghi? Quanto è fondamentale il contesto di gioco, e quanto lo è, invece, il ritmo con il quale viene raccontata la suddetta storia? La mia personale opinione in questo ambito è che – per quanto tutti questi aspetti contribuiscano insieme a rendere un’avventura indimenticabile – personaggi, dialoghi e ritmo siano i tre punti chiave sui quali lavorare. L’esempio perfetto (che tra l’altro vale sia per l’universo videoludico che per quello cinematografico, visto che il personaggio ha avuto lo stesso effetto in tutti e due i media) è quello di Deadpool. Deadpool, sia esso il videogioco o il film, riesce nell’intento di raccontare una storia semplice (che qualcuno azzarderebbe a definire anche “banale”) con un ritmo che moltissime altre produzioni più grandi si sognano. Dialoghi brillanti, gag no-stop, personaggi sopra le righe e una durata non eccessiva che permette una forte rigiocabilità sono solo alcuni dei motivi per i quali, dal punto di vista prettamente legato alla scrittura, siamo di fronte ad un prodotto di tutto rispetto. A cosa è servita questa divagazione sulle avventure del Mercenario Chiacchierone? A farvi capire come io ritenga che il ritmo sia uno degli elementi chiave nella narrazione videoludica, anche a scapito di una longevità inferiore.

 

Ecco spiegato, quindi, il motivo per il quale trovo che un open world non possa in nessun modo avere lo stesso spessore narrativo di un titolo “corridoio”. Le missioni secondarie distolgono l’attenzione del giocatore dalla trama vera e propria. Le grandi aree percorse allungano il ritmo andando a sabotare la “regia” che il titolo altrimenti avrebbe. Il passare del tempo tra una quest principale e l’altro va a minare i rapporti tra i personaggi che, piuttosto che incontrarsi nel momento richiesto dalla trama, sembra si incontrino casualmente dopo aver svolto altre attività (e rovinando così le relazioni tra di loro). Ancora una volta sono costretto ad usare un esempio per farvi capire il mio punto di vista: secondo voi Il Signore degli Anelli avrebbe avuto lo stesso spessore se, invece della versione cinematografica, ci avessero fatto vedere tutto (ma proprio tutto) il viaggio di Frodo & Co.? Ecco, negli open world accade proprio questo. C’è una regia meno rigida che, con un numero nettamente minore di tagli e accorgimenti narrativi, sacrifica il ritmo per dare una maggiore libertà al giocatore e per permettergli di entrare maggiormente nel gioco, impersonificandosi nel protagonsita molto di più rispetto ad un titolo “normale”. Con questo non voglio assolutamente dire che ci siano tipologie di gioco migliori di altre, sia chiaro, ma voglio solo evidenziare come, inevitabilmente, un titolo open world non possa pretendere di raggiungere vette narrative di altre tipologie videoludiche che fanno del raccontare una storia il loro punto di forza.

Open è meglio, lo dicono anche i linuxari

Pietro Iacullo ed il virtuosismo delle scelte difficili

 

A sentire l’altra campana, sembrerebbe quindi che l’approccio open world sia inevitabilmente condannato a rimanere un gradino sotto il “corridoio”, dato che quest’ultimo permette un maggiore controllo su come l’avventura si sviluppa e, soprattutto, su come il giocatore la affronta. Dando momentaneamente per buona l’affermazione (tra qualche riga avremo modo di vedere come non sia esattamente così) e provando ad applicarla ad un’altra industria dell’intrattenimento come il Cinema, potremmo dire, in pratica, che il montaggio tradizionale sia superiore al piano-sequenza in quanto più semplice da gestire. È chiaro come quindi si tratti di un ragionamento fallace, visto che è spesso vero il contrario e, anzi, quando un regista riesce ad usare sapientemente una tecnica come quella del piano sequenza (sicuramente più complessa da “portare a casa”), essa va ad impreziosire la sua cifra stilistica con tocchi d’alta classe che è difficile (se non sacrilego) mettere in discussione. Tornando al videogioco, quindi, dire che il binario (o “corridoio”, se preferite) batte l’open world grazie a vantaggi intrinseci alla formula è avere una visione limitata di quelle che sono le potenzialità del medium: proprio perché (questo, va detto, è innegabile) il giocatore è lasciato più libero – e la regia, di conseguenza, ha meno peso e controllo -, quando si riesce a raccontare una buona storia in queste condizioni ne guadagna, in generale, tutta la produzione.

 

The Witcher 3 open world

 

La regia in un contesto open world è senza dubbio più impegnativa, Ma proprio per questo quando riesce impreziosisce tutta la produzione
A questo punto vanno poi considerate tutte le possibilità che un mondo open world, tramite la presenza di eventi e missioni secondarie, può mettere a servizio della storyline principale cercando di arricchirla. Banalmente, diventa più facile calare il giocatore nell’illusione di un mondo più realistico, capace di vivere di vita propria indipendentemente da quelle che sono le azioni del giocatore; specie nei casi in cui lo sviluppatore riesce a descrivere bene il contesto in cui è ambientata l’opera, riuscendo ad appoggiare il tutto su una base più solida e più capace di portare avanti l’inganno di trovarsi davvero dall’altra parte dello schermo, nella Vice City o nella Tamriel di turno. In questo contesto di fittizia autonomia del mondo di gioco, diventa più facile anche lanciare qualche anticipazione velata al giocatore, disseminando indizi su aspetti e vicende che poi entreranno di prepotenza nel “flusso principale” della storia nelle sequenze successive. È una cosa che ovviamente si può fare anche tramite cutscene nel caso di approcci più lineari, ma che nel caso dell’open world diventa una carta che può essere giocata in modo più sottile e allusivo (come fatto, per esempio, dal controverso Watch Dogs). Le missioni secondarie, poi, se da una parte effettivamente offrono potenziali distrazioni e possono rovinare il ritmo della produzione, dall’altra hanno la capacità di offrire ulteriore rotondità al mondo di gioco (mettendo il giocatore in contatto con gli usi e i costumi della landa digitale che sta vivendo pad alla mano) e ai personaggi che la storia mette sul campo, andando a caratterizzare tutto molto meglio e magari approfondendone anche trascorsi e motivazioni, oltre a delinearne la psicologia in modo più preciso. E, parlando di elementi secondari, in un contesto open world è sicuramente più facile (e più naturale) sviluppare diramazioni secondarie della trama, arrivando ad includere il classico multi-finale tramite approcci che, sulla carta, sono preclusi nei mondi privi di quei binari tipici dei giochi “a corridoio”: è vero, si possono comunque inserire scelte e valutare le azioni, ma l’open world, per sua stessa natura, permette di andare più a fondo, realizzando più possibilità in-game che possono poi pesare al momento della conclusione.

C’è infine un altro aspetto da tenere in considerazione, soprattutto se si aspira a realizzare un titolo dall’alto impatto capace di ghermire il giocatore ed incatenarlo nel buio della sua stanza, davanti allo schermo. Capita infatti molto spesso, una volta arrivati alla fine di un’esperienza ludica e/o narrativa che ha lasciato una grossa traccia emozionale su chi ne ha fruito, di volerne ancora e non essere pronti ad abbandonare quei mondi virtuali che si sono accesi all’avvio del gioco ma non si sono spenti quando si è arrivati alla classica scritta “Fine” su sfondo nero. Se il titolo che è rimasto, alla fine dei giochi, parcheggiato nel lettore ottico della console fa parte del #TeamCorridoi, le alternative sono due: o si riavvolge il nastro e si ricomincia da capo tutto, oppure si va alla ricerca di qualche esperienza ugualmente forte nella libreria di titoli a disposizione. Se invece la copertina reca il bollino #TeamPraterie, le missioni secondarie offrono una terza strada, sfogando la voglia residua di respirare l’aria virtuale di quell’universo narrativo cui si vuole ancora, anche solo per qualche ora, rimanere attaccati prima dell’inesorabile addio (o arrivederci alla prossima espansione, quando le cose sono fatte per bene).

 

Fuori i nomi…

I due nomi di Luca: Promosso The Witcher, rimandato Kojima

 

Personalmente, negli ultimi anni, l’unico titolo open world che ho trovato narrativamente molto solido è stato The Witcher 3, anche se mi sento di dover fare degli appunti anche per il lavoro dei CD Projekt. Come ben sanno gli appassionati del genere fantasy, l’immedesimazione, la descrizione degli ambienti e la sensazione di vivere all’interno del mondo immaginato e immaginario (qualasiasi sia il media di riferimento) sono degli elementi fondamentali per la riuscita di un buon prodotto appartenente a questa tipologia narrativa. Ecco che, quindi, The Witcher 3 è riuscito a coinvolgermi non solo per la trama complessa, per i personaggi carismatici e per le side-quest capaci di essere interessanti quanto la campagna principale, ma anche per la sua appartenenza al genere fantasy. Se, ad esempio, la stessa storia fosse stata narrata tramite il sistema “corridoio”, un titolo di questo genere non avrebbe potuto trasmettere le stesse emozioni, risultando nettamente inferiore al risultato ottenuto dai ragazzi di CD Projekt.

 

 

The Phantom Pain: il Metal Gear “peggiore” dal punto di vista della storia?
Se devo pensare, invece, ad un prodotto che proprio a causa della sua natura open world non ha saputo convincermi, andando a snaturare le fondamenta della serie, il primo nome che mi balza alla mente è sicuramente Metal Gear Solid V. Anche in questo caso non ritengo che si tratti di un brutto gioco (anzi, il gameplay è al top per la serie), ma credo che narrativamente MGSV non solo sia il peggiore dei capitoli principali, ma pecchi proprio in quello che era il punto di forza di tutti gli altri titoli della serie: il ritmo. Appare evidente a chiunque abbia avuto occasione di giocare l’ultimo lavoro di Kojima in casa Konami: la regia del game designer riesce ad emergere in alcuni momenti, stupendo come al solito, ma tra uno e l’altro di questi momenti passano ore e ore di missioni secondarie dedicate alle attività più svariate, andando ad ammosciare la storia e a far perdere la tensione montata dagli eventi più importanti, ormai lontani ore dalla quest principale.

… E anche i cognomi

The Phantom Pain il Metal Gear raccontato peggio? Il webmaster non ci sta

 

No caro amico, non sono d’accordo, parli da uomo ferito. Premesso che, inutile nasconderlo, uno dei difetti principali di The Phantom Pain è il suo basso ritmo dal punto di vista narrativo, bisogna precisare quantomeno due cose. La prima è che dare la colpa di questo difetto all’approccio open world scelto da Kojima (che è ingiusto definire snaturante, vista la direzione presa dalla serie già ai tempi di Snake Eater) non è corretto, visto e considerato che il titolo si può e si lascia giocare tranquillamente ignorando la gran parte di questi “inediti” aspetti a mondo aperto. Si può tornare in libertà alla Mother Base alla fine di ogni missione e lasciarsi scaricare direttamente vicini all’obiettivo sulla mappa, senza la necessità di attraversare grosse porzioni di territorio da una parte all’altra se non in alcune missioni, dove è richiesto di capire il percorso di alcuni bersagli e sfruttare l’informazione per colpirli. In seconda battuta bisogna distinguere le problematiche relative al ritmo della narrazione dalla narrazione in sé e per sé: innegabilmente The Phantom Pain propone delle sequenze dove il “tocco di Kojima” si fa sentire e ha regalato momenti che, per crudezza e dialoghi, non sfigurano per nulla rispetto allo storico della serie da questo punto di vista.

 

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In The Phantom Pain non vengono a mancare momenti emotivamente carichi

 

Mafia II: raccontato alla grande, anche  con un open world realizzato male
Un altro caso di studio decisamente interessante è Mafia II: il titolo 2K (classe 2010) è sicuramente da annoverare in quella cerchia di prodotti open world capaci di raccontare una grandissima storia. In questo caso, però, sarebbe fosse più corretto riformulare l’affermazione precedente e parlare di un titolo capace di raccontare una grandissima storia nonostante un open world colmo di difetti: prima tra tutti, l’assenza di giustificazioni ludiche che rendessero plausibile una mappa di quelle dimensioni (se si escludono il riuscitissimo sistema di guida e la presenza di qualche collezionabile), visto che le cose da fare al di fuori delle missioni erano assolutamente poche e scadevano nel ripetitivo dopo pochissime iterazioni. Complessivamente un peccato, che ha impedito al titolo di “strapparci” una valutazione più generosa; ma, a voler vedere il bicchiere mezzo pieno, anche un perfetto esempio di come non sia sempre colpa dell’approccio open world quando le cose, narrativamente, vanno male.

Conclusioni
#Teamcorridoi: Tralasciando i gusti personali, che sono la prima cosa da prendere in considerazione quando si analizza qualcosa, ritengo che per avere una narrativa solida e ben strutturata sia necessaria una regia capace di tagliare i momenti superflui, enfatizzare determinate situazioni e dare un ritmo generale alla produzione che, altrimenti, rischia di appiattirsi e di non colpire a pieno il giocatore. Come abbiamo detto in precedenza, però, questo dipende da cosa vi interessa all’interno di una storia, e da quanto preferiate anteporre l’atmosfera al ritmo (o viceversa). Per quanto mi riguarda, sono davvero pochi i titoli open world capaci di stupirmi e di conquistarmi al 100% nonostante la mancanza di una regia ben definita; ma qui entriamo nell’argomento “perché The Legend of Zelda è un capolavoro?“, che magari approfondiremo in un prossimo speciale.


#TeamPraterie: Non giriamoci attorno, raccontare una storia solida in un contesto open world è difficile, e questo articolo non voleva mettere in dubbio tale verità. Non è però impossibile e, anzi, quando uno sviluppatore riesce nell’intento ed utilizza con intelligenza quelle che sono le caratteristiche di questo approccio più “libertino”, il risultato finale (The Witcher 3 insegna) è capace di accontentare e soddisfare il giocatore, mettendo sul piatto aspetti che in un titolo dal flusso più “verticale” non possono, per forza di cose, esserci. Da questo punto di vista, il giocatore dovrebbe partire senza preconcetti, che lo spingono magari a credere che l’Open World rovini in ogni caso la festa agli aspetti narrativi (come abbiamo visto, anche quando le cose vanno male non è necessariamente colpa dell’estensione della mappa). Gli azzardi, mai come in questo caso, possono pagare e pagare anche profumatamente chi corre il rischio, tanto nel caso di chi sviluppa il titolo quanto per chi, poi, sceglie di acquistarlo in negozio.

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