Recensione Metal Gear Solid V: The Phantom Pain

Arrivati a questo punto, non si può non etichettare Metal Gear Solid V come uno di quei titoli condannati a far parlare di loro: l’annuncio a nome del fittizio Moby Dick Studios di Joakim Mogren (rivelatosi poi essere lo stesso Hideo Kojima sotto mentite spoglie), le polemiche sulla longevità del “primo atto” Ground Zeroes ed il divorzio tra Konami e Kojima hanno a turno tenuto banco per quasi tre anni. Eppure siamo quasi sicuri che di The Phantom Pain si continuerà a parlare nel tempo a venire per un motivo se vogliamo molto più banale: semplicemente siamo di fronte ad un Metal Gear (l’ultimo?) dannatamente controverso, quanto e forse anche di più di quel Sons of Liberty uscito nel 2002.

From the man who sold the world
Il tema principale è quello della vendetta, ma non mancano richiami ai temi trattati negli altri capitoli
Le vicende ricominciano da dove si erano interrotte dopo l’assaggio datoci da Ground Zeroes: a seguito dell’attacco da parte della misteriosa XOF che ha distrutto la Mother Base Big Boss entra in coma, risvegliandosi solo nove anni dopo. Nei panni di Venom Snake quindi il suo obiettivo sarà quello di rimettere in piedi una compagnia di “mastini da guerra” (questa volta non più Militaires Sans Frontieres, ma Diamond Dogs) e assieme alla vecchia banda rivalersi su Cypher e sul misterioso Skull Face, rispettivamente mandante ed esecutore dell’attentato. Che si parli quindi di Snake, di Kaz Miller o anche degli antagonisti il tema portante di questo quinto capitolo è quello della vendetta, in opposizione alla pace di Peace Walker (cui in questo capitolo è dedicata una sottotrama legata a Paz) ma non mancano comunque accenni più o meno presenti alle altre tematiche “classiche” del registro narrativo della serie, come quello dei “meme”, le informazioni e gli elementi tramandate alle generazioni future senza veicolarle attraverso i geni. Come non mancano momenti dedicati al “dolore fantasma” citato nel titolo, riguardi questo gli arti persi da Venom Snake e Kaz o i compagni d’armi caduti durante lo scontro contro Cypher e la XOF. Tutto questo si articola attraverso circa 50 missioni principali, che al netto delle side-ops (oltre un centinaio di missioni secondarie, purtroppo la maggior parte non ripetibili) corrispondono grossomodo ad altrettante ore di gioco, influenzate ovviamente dalla “variabile personale” dello stile del giocatore che può far crescere o diminuire il tempo da spendere per arrivare alla fine.

Ma i Boss?
The Phantom Pain darà molto di cui discutere ai fan della serie
Si diceva in apertura di come The Phantom Pain sia un capitolo che sicuramente darà molto da discutere agli appassionati: una delle motivazioni principali a sostegno di questa affermazione riguarda la componente narrativa del titolo, da sempre uno dei cavalli di battaglia della serie e più in generale dei prodotti firmati Hideo Kojima (che l’indicazione sia presente sulla cover o meno). Da questo punto di vista, va premesso, questo quinto capitolo riesce a dire la sua anche con una certa abilità, regalando alcune sequenze filmate impreziosite dalla solita regia e dal tocco cinematografico dello sviluppatore giapponese e, soprattutto, crude quanto e anche di più rispetto al finale di Ground Zeroes (basti pensare a questo proposito alla prima missione). Non mancano nemmeno citazioni ad altri capitoli della serie o ad opere terze come Moby Dick (ricorrente già dai tempi dell’annuncio del titolo), come pure strizzate d’occhio al giocatore che infrangono la quarta parete e indizi per i più attenti lasciati con lo scopo di far intuire il finale. Ma il problema principale è che per la gran parte dell’esperienza è il ritmo ad essere un po’ troppo basso, con questo aspetto in particolare del titolo capace di ingranare solo una volta arrivati dalle parti della missione 23 (White Mamba), e prendere il decollo sul serio solo a ridosso dello splendido finale del primo capitolo con la missione 31. Discorso simile si può fare per un altro degli aspetti che nelle precedenti uscite di Metal Gear avevano infiammato i giocatori, i boss: per quanto comunque non manchino alcune boss fight davvero riuscite (a questo proposito è impossibile non citare nuovamente la missione 31, capace di stendere chi sta dall’altro lato dello schermo con un uno-due ludico e narrativo, pur rovinato in parte nell’ultima manciata di secondi) la mancanza di antagonisti carismatici si fa sentire e sicuramente non aiuta a riempire gli spezzoni di “vuoto di trama” che caratterizzano la prima parte del Capitolo 1 e quasi del tutto il Capitolo 2 (ci torneremo tra un attimo). La colpa, attribuita da più di qualcuno a torto alla nuova impostazione open world scelta per confezionare il prodotto, è più probabilmente da imputare alle frizioni createsi tra la casa madre e Kojima, che tra le altre cose hanno portato alla rimozione di una missione chiave e alla gestione traballante del secondo atto del titolo, che porta poi al finale: per poter vedere l’ultima sequenza è infatti necessario giocare alcune missioni sbloccate dopo la trentunesima, che però nella loro maggior parte corrispondono (per quanto riguarda la storyline principale) a vecchie missioni riproposte con qualche modificatore, come una difficoltà aumentata o l’obbligo di portare a termine il tutto senza farsi scoprire. L’alternativa è affrontare una serie di “secondarie nobilitate”, che paradossalmente pur non essendo giocabili una seconda volta mandano più avanti la trama di queste “missioni deja-vu”.

Le registrazioni fanno parte della storia a pieno titolo
Insomma, per lunghi tratti dell’esperienza la storia avanza più grazie alle cassette che raccontano quello che succede alla nuova Mother Base durante le missioni di Venom Snake e che, a scanso di equivoci, essendo elargite alla fine di ogni missione e contenendo sia informazioni legate al titolo in esame e approfondimenti su titoli più “vecchi” (come Snake Eater), non sono da annoverare tra i collezionabili ma fanno a pieno diritto parte della storyline principale, a differenza di quelle dedicate alle tracce musicali disseminate per la mappa. Tant’è che queste riescono a mettere a nudo anche qualche personaggio (non poi così tanto) secondario, come per esempio Huey Emmerich che da questo quinto capitolo emerge sotto una luce inedita e, senza voler dire troppo, agghiacciante.

Finale chirurgico, sospeso tra genio e pazzia
Abbiamo tenuto volutamente per ultimo l’aspetto che senza ombra di dubbio solleverà le discussioni più accese: il finale. Senza voler anticipare nulla ci limitiamo a dire che questo, con l’eccezione della sottotrama legata alla missione cancellata di cui parlavamo più sopra, chiude il cerchio della serie in modo praticamente chirurgico, riuscendo a collegare The Phantom Pain ai capitoli cronologicamente successivi (ci riferiamo soprattutto ai due Metal Gear usciti su MSX e al primo Metal Gear Solid) incastrandosi sorprendentemente con dettagli risalenti a quasi trent’anni fa . Si tratta però senza dubbio di una trovata capace di spiazzare il giocatore, quasi uno schiaffo in faccia, che può far pendere l’ago della bilancia allo stesso modo da una parte o dall’altra. In questo senso il paragone iniziale con Metal Gear Solid 2 ci è parso il più azzeccato, anche se qui le proporzioni sono decisamente più macroscopiche all’interno della serie. Per dirla in breve, ancora una volta, se ne parlerà probabilmente per parecchio tempo, ma da parte nostra non riconoscere il coraggio di una scelta mai così al confine tra genio e follia (marchio di fabbrica del “tocco di Kojima”) sarebbe stato ingiusto nei confronti del rischio che si è addossato lo sviluppatore.

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