Pietro Iacullo

Speciale Ho visto Fumito Ueda riflesso in Death Stranding

Ho visto Fumito Ueda riflesso in Death Stranding.

Da una parte Fumito Ueda, dall’altra Death Stranding. Per mille e mille versi, due insiemi che intersecati restituiscono il Vuoto. Lo dice la matematica, quella stessa matematica che basta a dimostrare che i videogiochi sono Arte, perché somma di elementi che a loro volta lo sono. Eppure più leggo di quel maledetto gameplay – quello che non ho guardato ma Gameromancer mi ha raccontato in diretta – e più l’unica risposta razionale mi sembra una e una sola, come una retta che passa per due punti allineati.

La matematica sbaglia, perché c'è Fumito Ueda riflesso in Death Stranding. Proprio nel Vuoto di Death Stranding


Per approfondire:
Shadow of the Colossus
Non è il Vuoto del Design per sottrazione di Ueda. Sicuramente non quello di ICO, che è un prodotto essenziale fino a quasi trascendere la concezione di videogioco (quantomeno quella della sua epoca, i fasti di una PlayStation 2 tutta cinematiche e realismo). Kojima Production si è divertita ad aggiungere, anche – sopratutto – dove non era necessario, una minzione in mondovisione che poi in-game si è andata a tradurre in un numero soverchiante di barre e statistiche da tenere sott’occhio. Il minimalismo di Ueda, in Death Stranding, non può essere di casa, perché non è compatibile con l’approccio survival del gioco. No, il Vuoto di Kojima è un vuoto dell’anima, la solitudine di Sam che si traduce in sessioni immersi da soli nel mondo di gioco, che fanno spiccare per contrasto le meccaniche cooperative (i famosi legami, gli Strand, del titolo) e nella sua Odissea. Unire di nuovo l’America e le sue città diventa un bisogno fisiologico, un perno del gameplay quanto nella narrazione. Lo stesso disagio di Wander, ma raccontato al rovescio, un’immagine a specchio dove quello che è a destra finisce a sinistra e viceversa. Wander era condannato a rimanere prigioniero nel disco di Shadow of the Colossus, in un mondo dove vivevano lui e sedici Colossi. Siamo stati tutti Wander, ma lo siamo stati nel nostro intimo: nessuna distrazione, nessuna missione secondaria, solo sedici puzzle in movimento da eliminare – senza capire bene perché, giocando con un disagio che diventa chiaro solo alla fine.

L’8 novembre saremo tutti Sam. Ma lo saremo insieme, sapendo che la scala che decidiamo di abbandonare lungo la strada può diventare un’ancora verso la partita di qualcun altro, magari anche cambiargli la giornata.

Ti piace? La meccanica legata ai “like” in Death Stranding è emblematica, a questo proposito.

È questo, il riflesso di Fumito Ueda che ho visto in Death Stranding. Un gioco di specchi che mostrano la stessa immagine, lo stesso disagio, ma al contrario. Wander è condannato, noi abbiamo ancora speranza. È narrativa che passa dal gameplay, come il dover tenere premuto un tasto per fare in modo che Ico, dall’altra parte dello schermo, tenga la mano di Yorda. È quello che un videogioco dovrebbe fare, come dovrebbe raccontarlo: perché la cutscene è qualcosa che i videogiochi hanno rubato al Cinema, una soluzione di comodo che aggiunge minutaggio in modo semplice per tutti. Anche per noi che giochiamo, perché la discesa verso l’inferno di Wander va intercettata, e solo chi ha la sensibilità per farlo può percepire Shadow of the Colossus. Per tutti gli altri rimane quell’action-RPG uscito su PS2, con la mappa enorme e delle belle musiche (quando ci sono), ma a cui manca qualcosa.

Familiare, no? È una delle critiche più gettonate sia per Ueda che per Death Stranding. Manca qualcosa. Qualcosa che invece c’è, va semplicemente cercato. Che sta già creando legami prima del day one, tra chi questo qualcosa lo vede e chi preferisce parlare di Amazon Simulator.

Qualcosa che invece c’è, va semplicemente capito…

#LiveTheRebellion