Da una parte Fumito Ueda, dall’altra Death Stranding. Per mille e mille versi, due insiemi che intersecati restituiscono il Vuoto. Lo dice la matematica, quella stessa matematica che basta a dimostrare che i videogiochi sono Arte, perché somma di elementi che a loro volta lo sono. Eppure più leggo di quel maledetto gameplay – quello che non ho guardato ma Gameromancer mi ha raccontato in diretta – e più l’unica risposta razionale mi sembra una e una sola, come una retta che passa per due punti allineati.
La matematica sbaglia, perché c'è Fumito Ueda riflesso in Death Stranding. Proprio nel Vuoto di Death Stranding
Ti piace? La meccanica legata ai “like” in Death Stranding è emblematica, a questo proposito.
È questo, il riflesso di Fumito Ueda che ho visto in Death Stranding. Un gioco di specchi che mostrano la stessa immagine, lo stesso disagio, ma al contrario. Wander è condannato, noi abbiamo ancora speranza. È narrativa che passa dal gameplay, come il dover tenere premuto un tasto per fare in modo che Ico, dall’altra parte dello schermo, tenga la mano di Yorda. È quello che un videogioco dovrebbe fare, come dovrebbe raccontarlo: perché la cutscene è qualcosa che i videogiochi hanno rubato al Cinema, una soluzione di comodo che aggiunge minutaggio in modo semplice per tutti. Anche per noi che giochiamo, perché la discesa verso l’inferno di Wander va intercettata, e solo chi ha la sensibilità per farlo può percepire Shadow of the Colossus. Per tutti gli altri rimane quell’action-RPG uscito su PS2, con la mappa enorme e delle belle musiche (quando ci sono), ma a cui manca qualcosa. Familiare, no? È una delle critiche più gettonate sia per Ueda che per Death Stranding. Manca qualcosa. Qualcosa che invece c’è, va semplicemente cercato. Che sta già creando legami prima del day one, tra chi questo qualcosa lo vede e chi preferisce parlare di Amazon Simulator.
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