Le grandi idee sono gioielli da rubare.

Guardi OkunoKA, opera dei romani Caracal Games recensita qualche giorno fa dall’ottimo Pietro, e il paragone è quello, chiaro, lampante, superficiale anche: il Rayman resuscitato in Ubi Art che incontra lo spietato time attack platforming di Super Meat Boy. E ci sta, assolutamente, ma spesso ci si dimentica che tutto il mondo dell’arte vive in un loop di colpi di genio, ispirazioni e reinterpretazioni.

Il parallelo con alcuni scorci dell’opera di Ancel è una vera e propria dichiarazione d’amore, dall’impatto visivo agli adorabili versi degli esserini che andremo a salvare di livello in livello, praticamente identici ai Lum di Rayman. Quasi riverente nei primi due mondi, nei successivi la direzione artistica prende una strada asfaltata di fresco, su cui il titolo comincia a macinare trovate uniche, lasciando correre il gameplay liberamente ispirato al moderno classico di Edmund McMillen senza soluzione di continuità, dimenticandosi l’impatto iniziale da tribute band per scoprire un repertorio di grandissima qualità. Perché l’ispirazione serve e certe idee sarebbe un crimine non rubarle, diventando concime di interi sottogeneri che rischierebbero di rimanere esempi unici per poi finire al macero nonostante il successo.

Rayman Origins + Super Meat Boy = OkunoKA? Non è proprio così semplice.

E l’eredità di Super Meat Boy, che senza tanti giri di parole considero il Super Mario Bros. del XXI secolo per impatto sul genere, va tramandata ad ogni costo. OkunoKA è certamente il primo erede al trono di questa prole diabolica, ripulita da tutto il marcio di quella clamorosa ambientazione per scegliere tinte pastello da fantasy, creando un meraviglioso contrasto di calore visivo e crudeltà verso il giocatore, sottolineata dai riff di chitarra della splendida colonna sonora. Sarebbe un po’ come accusare gli Editors di copiare i Joy Division, senza pensare al duplice effetto benefico di dare un futuro a un’intera corrente musicale, mettendoci tantissimo del loro talento cristallino, senza permettere all’origine del mito di perdersi tra le pieghe del tempo. Un cerchio virtuale della vita dove ciò che muore non muore mai, soprattutto grazie al panorama indie, che spesso inventa da zero nuovi generi per poi lasciare ai posteri prodotti cui trarre ispirazione per continuare ad evolvere. Gli esempi sono molteplici, come il recentemente giunto su Switch e One, e sulla cresta dell’onda già da un anno abbondante, Horizon Chase Turbo, sapiens sapiens dei racing arcade classici, abbandonati negli anni ’90 per sopraggiunti progressi tecnologici e riscoperti, aggiornati e rilanciati da Aquiris.

Acquiris è riuscita a salvare da morte sicura il racing arcade tradizionale, regalandogli una seconda e insperata giovinezza. Che stile!

Il problema è che da un trailer spesso si ha la sensazione sbagliata, una sensazione di plagio o nostalgia che la maggior parte dei potenziali giocatori deve prima superare, un pregiudizio che mina la qualità dei prodotti già dentro la testa, trattandoli inconsapevolmente come dei Great Giana Sisters moderni. Un falso d’autore clamoroso quello, pratica che in questi anni, molto meno platealmente e non legalmente perseguibile, ha popolato gran parte della scena neo-retro di stampo indipendente, come Maldida Castilla ad esempio, spudorato e sentimentale tributo a Ghosts ‘n’ Goblins. Non si attinge solo al passato però, con software house che cercano anche, col cuore in una mano e l’altra ovviamente sul portafoglio (quello sempre, inutile fare gli idealisti), di cavalcare l’onda del mercato contemporaneo per inserirsi in una striscia di successo, come la minaccia di morte firmata col sangue da Hidetaka Miyazaki, quel Dark Souls che ha fatto esplodere la mania soulslike (termine terribile, ma tant’è) crescendo figli e figliocci più o meno legittimi. Dall’interpretazione bidimensionale di Ska Studio con Salt and Sanctuary all’appena rilasciato Ashen, il cui idolo è palese fin dalle animazioni per poi sviluppare la propria visione, inserendosi in un contesto ludico in cui lo stesso frontman di From Software ha deciso di virare su altri generi, chiudendo la serie Souls e lasciando un punto interrogativo sul futuro di Bloodborne, dando così la possibilità agli appassionati di abbeverarsi a nuove variazioni sul tema e magari lasciando ad altri la possibilità di raccoglierne il testimone.

Le pose, i colori, le luci, tutto sussurra le ispirazioni alla base di Ashen, ma la personalità esce sempre fuori.

Che è poi quello che avrebbero dovuto fare Inafune e Igarashi, impegnati a clonare loro stessi e, per ora, incapaci di apportare alcun beneficio al panorama videoludico, coraggio che ha finalmente avuto Kojima, che ha recentemente avuto Tabata e molte altri grandi firme capaci di abbandonare la gabbia dorata delle major per rimettersi in gioco.

C’è poi chi, con immenso ego e savoir faire decide di prendere una licenza fortissima e piegarla con classe innata alla propria visione, come Tetsuya Mizuguchi col sensorialmente devastante Tetris Effect. Qui siamo in un altro campo ancora, quello dei remix ufficiali, questo in particolare talmente voluto da portare al concepimento di Lumines, quando non gli era ancora stata concessa la possibilità di mettere mano al codice sacro di Aleksej Pažitnov.

Solo giocando però si può capire quanto lo sviluppatore sia riuscito a metterci del suo, perché è facilissimo sindacare sulla personalità di un prodotto e sulla scarsa inventiva del suo inventore senza averne approfondito l’idea, entità gassosa solidificata poi in pixel e stringhe di codice. Plasmare da zero il nuovo è compito di pochissimi geni, pionieri, personaggi la cui mente riesce a riscrivere letteralmente le regole del gioco, dando il via a nuove correnti artistiche, generi, cult, cedendo poi agli innamorati l’essenza dell’eterna giovinezza videoludica: l’ispirazione.

 

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