A dispetto del nome, l’ultima console di Sega rappresenta la prova tangibile che la realtà molto spesso ha più i connotati spietati di un incubo.

Dici Dreamcast e gli occhi di un qualunque appassionato – gli occhi di chi oggi può dire fieramente “io c’ero” – si accendono immediatamente, rievocando con aria sognante gli anni del canto del cigno di Sega, gli anni di una macchina che voleva disperatamente lasciare il suo marchio nella storia del videogioco. E che lo ha fatto, ma entrando dalla porta sbagliata della Hall of Fame, quella riservata agli sconfitti, agli incompiuti, a chi insomma non ce l’ha fatta.

Ma perché Dreamcast è il più grosso fallimento dell’industria?

La storia del flop di Dreamcast inizia ben prima di Dreamcast stesso, per poi concludersi con due colpevoli: noi e Sega

magazine dreamcast fallimento
Avanti Dreamcast
Non c’è un solo perché, quando si parla di fallimenti. E a maggior ragione nel caso di Dreamcast i concorsi di colpe sono molteplici, e per capire com’è possibile che una macchina così avveniristica possa essere passata dalla culla al cimitero – dalla fabbrica alle bancarelle di retrogaming delle fiere – nel giro di tre anni bisogna sapere cos’è successo prima, A.D. Avanti Dreamcast, appunto. Ed è una storia che inizia negli anni di Mega Drive, perché sono gli anni in cui Sega è al vertice della sua personale parabola dell’eroe e inizia a rotolare dolorosamente verso la Valle degli Sconfitti. E lo fa a colpi di pessime idee, confezionando una serie di add-on atroci per la macchina che fino a quel momento stava combattendo ferocemente con Nintendo e il suo Entertainment System.

Siamo agli inizi degli anni ’90 ed il mondo – a differenza di Nintendo, che si accorgerà della cosa solo molti anni dopo con GameCube – si sta progressivamente abbandonando ad un nuovo e rivoluzionario supporto per vendere dati. Che si tratti di software o di album musicali, la mania del Compact Disc impazza, visto che permette di memorizzare grosse quantità di informazioni con costi estremamente contenuti. L’amore per il CD esplode al punto da renderlo uno standard, e da contagiare anche l’industria del videogioco: escono revisioni ed add-on per le console già sul mercato che aggiungono un lettore ottico postumo, e Sega non può certo rimanere indietro rispetto a Neo Geo o PC Engine.

sega genesis final form
Volete farvi del male? Cercate su Google “Sega Genesis final form” (Genesis è il nome americano del Mega Drive)
Nasce Sega Mega CD, periferica che nelle intenzioni doveva garantire una lunga vita a Mega Drive ma che nella pratica, nonostante anche qualche buon titolo confezionato ad-hoc (Sonic CD, per esempio) non riuscì mai ad imporsi: troppo costosa e relativamente poco supportata, in anni dove comunque il videogioco non era un prodotto di massa come lo è adesso, ma più che altro una forma di intrattenimento pensata soprattutto per un target di giovani. Erano ancora anni pre-PlayStation insomma, dove console e videogiochi erano Giochi Preziosi (ocio però) venduti in giocheria e giocattoleria, non prodotti di consumo che oggi dominano il salotto e dispensano intrattenimento a 360 gradi. Per fare una rivoluzione del genere era necessario che il CD fosse supportato nativamente, e non tramite periferiche.

Gli add-on insomma erano un’idea assolutamente scellerata, e Mega CD lo ha dimostrato ampiamente.

Peccato che Sega non se ne sia accorta

Tra auto-lesionismo ed effetto osborne
Nel 1994 SNES ha soppiantato il vecchio NES e sta distruggendo Mega Drive, mentre il mondo si prepara ad accogliere i 32 bit: Sega punta ad un approccio “conservativo” e, prima di rilasciare un vero e proprio nuovo sistema punta su 32X, un ennesimo add-on per Mega Drive che, nelle intenzioni della casa, avrebbe dovuto fungere da punto d’ingresso low-cost in quest’era post-16 bit. Piccolo problema: tutto questo succedeva a qualche mese dall’uscita della vera nuova console di Sega, Saturn. Che a sua volta si sarebbe trovata a scontrarsi con questo momentum negativo auto-indotto (comprereste la console di una casa che continua a rilasciare la sua “Next Big Thing” ogni anno? A meno che non si chiami Apple, intendiamo) e con la già pluri-citata rivoluzione PlayStation, pronta a far fuori l’Ancien Régime di chi non aveva capito – o non voleva capire – che le cose stavano cambiando, i giocatori stessi stavano cambiando.

Dreamcast nasce proprio da qui, da una Sega che (forse) aveva finalmente capito dove stava andando l’industria ma che doveva pagare per i suoi personalissimi peccati del passato.

Peccato che Dreamcast sia stato semplicemente troppo, e contemporaneamente non sia stato abbastanza

Dreamcast è Avanti
Avveniristica, avanti, la prima vera console moderna. Quando si parla di Dreamcast, è molto facile utilizzare aggettivi ed espressioni di questo tipo. Perché beh, è vero: Dreamcast alla sua uscita (l’anno è il 1998, circa a 4 anni da Saturn) era una console avveniristica e avanti, ed è a tutti gli effetti la prima vera console moderna.

È stata la prima macchina ad introdurre il concetto di gameplay asincrono, ripreso poi da Sony (qualche tech demo per PSP, e poi su PS Vita) e portato ai massimi termini sullo sfortunato Wii U – tranquilli, continuate pure a credere che Nintendo non “copi” mai. Il gamepad di Dreamcast di due slot che consentono di aggiungere delle periferiche esterne, e una di queste (l Visual Memory Unit, o VMU) era di fatto un ibrido tra una console portatile e una memory card. In modalità “pod”, sganciata dal controller, permetteva di utilizzare alcuni mini-giochi scaricabili dalla console principale, inserita nel pad invece permetteva di sfruttare il suo schermo per mostrare informazioni aggiuntive sul suo schermo LCD. All’epoca sembrava una novità destinata ad imporsi e ad essere ripresa da tutti gli altri produttori.

Ed è successo… Una quindicina d’anni dopo.

Le companion app che fino a qualche anno fa erano di gran moda hanno nella VMU il loro primo antenato, e si può dire la stessa cosa dello SmartGlass di Microsoft o della PlayStation App di Sony. A riprova del fatto che l’idea fosse ottima, ma troppo in anticipo sui tempi: non c’erano dispositivi così trasversali e di consumo come gli smart device da utilizzare come standard, e giocoforza una periferica opzionale aveva evidenti limiti rispetto ad un’app gratuita.

Ma è stata soprattutto la prima console ad introdurre il multiplayer online, un servizio tramite il quale acquistare nuovi contenuti (Dreamarena) e più in generale a consentire la navigazione in rete, chattare e scambiare email. Cose che adesso facciamo abitualmente (anzi, a dire il vero non ci si preoccupa nemmeno più del poter inviare o meno email dalla propria console), ma che nel 1998 erano pura fantascienza.

Il problema? Di nuovo, l’essere troppo avanti rispetto ai tempi e rispetto al pubblico. Internet non era ancora una seconda natura per tutti, e l’accesso alla rete aveva costi e modalità decisamente indietro, a guardarle con gli occhi di chi oggi si connette in Wi-Fi e paga un abbonamento flat mensile al suo provider. Oggi non avere il multiplayer online su una console è follia, ai tempi era tutt’altro che fondamentale e i mezzi non erano ancora pronti a sdoganare il fenomeno… Sarebbero stati tali solo una decina di anni dopo.

Ma non è solo una questione di futurismo hardware, anzi…

Pantheon a 128-bit
…Lo stacco tra passato e presente dalle illusioni futuristiche era soprattutto una questione di software, dove tutto ciò che pulsava, girava, tirava sotto la scocca diede risultati raggiungibili dalle rivali solo dopo qualche anno. Chi visse l’avvento di Dreamcast venera la macchina come una divinità e le sue opere come una santa prole, intoccabile, cristallizzata nel tempo e nello spazio, in una costante glorificazione ai limiti del fanatismo. Un atteggiamento che si riscontra per pochissime altre macchine e softeche, giustificato da un valore storico e culturale incredibile, impressionante e rivoluzionario, racchiuso in soli 3 anni di produzioni.

È qui che sta il vero valore di Dreamcast: qualcosa al di là del collezionismo e delle cifre che possono chiedervi su Ebay e similari

La lista della spesa, in questo caso, sarebbe vilipendio
Fare listoni citando ogni “sogno” apparto sull’ultima ammiraglia SEGA sarebbe semplicemente uno spreco di tempo, nonché una banalità, perché è il quadro d’insieme a far capire la grandezza di questa libreria a chi non ha avuto modo di vederla diventare sempre più preziosa in presa diretta. Vita e morte di un’utopia, 1998-2001, un tempo ridottissimo, una corsa verso la gloria cercando disperatamente il successo commerciale che portò SEGA in primis e i suoi partner a spremere la macchina e i loro sviluppatori, tra miracoli tecnici, possibili grazie a un salto di qualità enorme rispetto alla generazione passata, ancora in corso ad altre latitudini, e innovazioni di gameplay che hanno fatto scuola, diventando parte degli standard produttivi odierni, nonché una sana dose di follia, dando spazio a opere visionarie e game designer leggendari, tra il veterano Yu Suzuki e l’astro nascente Tetsuya Mizuguchi, genio assoluto dell’industria. Quando PlayStation 2, nel marzo 2000, cominciò la sua vorace scalata verso la cannibalizzazione del mercato, già iniziata con la storica “scatoletta grigia”, Dreamcast era incredibilmente più avanti, non solo grazie ai due anni di vantaggio, ma grazie a un immaginario iconico dalla portata impressionante, che mescolava brand storici SEGA e meravigliose conversioni dai suoi cabinati con nuove proprietà intellettuali ed esperimenti che ancora oggi brillano nella hall of fame del mondo videoludico.

Terra santa dei racing arcade dove spicca l’eterno Daytona 2001, culla del team United Game Artists, un nome, una dichiarazione d’intenti, capitanato da Mizuguchi, padre di Space Channel 5 e Rez (uscito ormai fuori tempo massimo), console che rese possibile la rivoluzione open world dalle declinazioni narrativo-cinematiche di Shenmue.
Una dimostrazione di forza trasmessa anche attraverso la sfida a EA in campo sportivo, con Visual Concepts acquisita per sviluppare in esclusiva gli sportivi della serie 2K, tra i migliori titoli disponibili per la console. Quello che sorprende è che, nonostante una clessidra avida sempre in mostra sulle scrivanie degli studi SEGA, siano riusciti a completare il loro sogno, soprattutto a livello di varietà e qualità. Pur partendo con due anni di esperienza e studio in più sui 128-bit, il monolite nero ce ne metterà ancora altrettanti ad entrare a pieno regime, soprattutto a livello tecnico, elargendo poi una quantità di capolavori quasi eccessiva.

Solo in una cosa fallì Sony con PS2:  non riuscì mai a far sparire dalla storia e dalla memoria dei giocatori questo fallimento agrodolce.

Un sogno dal finale agrodolce
Un fallimento la cui softeca, in parte, andò ironicamente a rinforzare proprio la line up del nuovo fenomeno pop dell’industria, che si impose partendo da un marketing spietato, infallibile, lasciando le briciole a chi non riuscì a capire dove stava tirando il vento. Un’utopia appunto, che come molte altre fu vittima della sua stessa pura ambizione, segnando il declino, da quel momento, di interi generi, semplicemente perché SEGA ne era il faro e l’ideatore, la cui maestria nello scolpire videogiochi può essere paragonata solo alla rivale di sempre, Nintendo. Marzo 2001, il cuore di Dreamcast e del suo presidente, Isao Okawa, smisero di battere per sempre, quasi all’unisono, lasciando un vuoto quasi incolmabile per coloro che furono svezzati da SEGA, e che oggi non smettono di tenere viva la memoria di una console romantica, avveniristica, immortale.

Mecenatismo ed eredità
Isao Okawa tentò in tutti i modi di buttare fuori l’acqua dalla barca che stava affondando, stoicamente, contro ogni logica imprenditoriale. Mecenate di Dreamcast fin dalla progettazione, donando 40 milioni di dollari in favore del suo sviluppo, un’inseminazione artificiale di capitali senza la quale, forse, non sarebbe stato possibile lasciare così il segno nella storia. Okawa sapeva che questa era l’ultima possibilità per SEGA di ritrovare una stabilità, un posto in quel mercato disilluso dagli errori del passato, lontano dai fasti del Mega Drive, spaccato dalla nuova era popolare del medium. Le speranze vengono disilluse dalla realtà, da vendite troppo basse che sviliscono l’incredibile sforzo di sviluppo e ricerca dell’innovazione dei suoi team. Il presidente, sapendo che il destino della sua macchina è già segnato fa qualcosa che nessun altro capitano d’industria giapponese avrebbe fatto, vola a Redmond, un anno prima che Microsoft dia i natali alla prima Xbox.

L’ultimo sogno di Okawa-san è quello di dare ai suoi utenti una nuova piattaforma dove migrare

L’idea? convincere la multinazionale americana a rendere retrocompatibile Xbox ai titoli Dreamcast, mantenendo anche l’avveniristica, e già ampiamente raccontata da Pietro, struttura online. Sforzi inutili come ben sappiamo, con una comprensibile declinazione dell’offerta da parte di Microsoft, che voleva buttarsi nel settore con un’identità unica, non condivisa con chi ormai apparteneva al passato, ai ricordi, alla Storia. A questo punto il mecenate decide di donare a SEGA Corporation tutte le sue azioni, 695 milioni di dollari per tenere in piedi la produzione hardware ancora per qualche tempo, ma questo suo ultimo atto d’amore non vedrà mai la luce.

Okawa si spense a Tokyo il 16 marzo 2001 a 74 anni.

Finale amaro per questa monografia
Quasi contemporaneamente, Peter Moore, presidente di SEGA America e ingranaggio fondamentale nelle strategie Xbox dal 2003, decise di porre fine alla produzione della console, mentre alla casa madre il neo presidente Hideki Sato sostenne che era giunto il momento per la casa di dedicarsi esclusivamente al settore software, che sparò le ultime cartucce dell’era Dreamcast proprio su Xbox, con Jet Set Radio Future, Panzer Dragoon Orta e soprattutto l’esclusiva occidentale di Shenmue II, a dimostrare che forse gli sforzi di Okawa non furono proprio vani. Fu la fine di un’altra epoca videoludica, un nuovo cambio di mercato, di competitor, con la sola Nintendo a fare da comun denominatore tra passato e nouvelle vague. Una SEGA che diede inizio, anche con la sua fine, all’industria contemporanea, diventando l’ombra di se stessa a livello produttivo ma vivendo nelle idee che ormai sono la nostra quotidianità ludica.

Il fallimento di Sega è parte di noi, parte di quelle stesse macchine che accendiamo quasi ogni giorno e che ormai non dispensano solo intrattenimento videoludico, ma sono la nostra porta d’accesso verso il relax. E proprio per questo si tratta del più grosso fallimento dell’industria, incapace nonostante tutto di trovare il giusto spazio per una macchina che nel 1998 aveva un chiaro e forte retrogusto di futuro. E che forse proprio per quel suo retrogusto adesso è relegata al passato, dove una realtà spietata come la nostra, incapace di fare sconti a chicchessia, cede forzatamente il posto alla nostalgia e all’idealizzazione. In altre parole: al sogno.

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