Ma devo proprio scriverla, una recensione di Death Stranding?

Provo vergogna, nello scrivere una recensione per Death Stranding. Non so se sono preparato. Non so se qualcuno può esserlo.

Once, there was an explosion…

Un tempo ci fu un’esplosione, uno scoppio che generò i videogiochi così come li conosciamo oggi. I superstiti ne portano ancora i segni, anche vent’anni dopo. Il tempo di decadimento non è stato sufficiente, la radiazione è ancora lì, nell’aria, pronta a bruciarci i polmoni ad ogni respiro.
Un tempo ci fu un’esplosione, uno scoppio che innescò una reazione a catena. Una presa di coscienza, l’estinzione di massa che diventa opportunità per evolvere.
E poi arrivò la prossima esplosione.

Coinvolto nello scoppio, non posso fare altro che provare vergogna.
Non sono pronto, non posso esserlo.

Don’t Be So Serious.
Hideo Kojima inizia Death Stranding così, con le stesse note di questa recensione. È il suo prodotto più coraggioso, il primo passo che lui – novello Sam – sta muovendo in un mondo enorme e spaventoso, come solo la libertà può essere.
Come si fa a non essere così seri, davanti ad un evento così? Per molti di noi Death Stranding è una singolarità attesa per tre anni. Uno dei game designer più influenti della sua generazione che si mette a nudo, incide su Blu-Ray quello che in un’altra epoca sarebbe stato un Manifesto.

Ma forse l’idea è proprio quella, forse è il mondo a prendersi troppo sul serio. A non aver capito che sulla strada verso l’Homo Ludens ci siamo persi, deviando il percorso fino all’Homo Demens. Abbiamo iniziato a prendere troppo sul serio anche il gioco, e ci aspettiamo di trovare del gioco sempre. Forse Death Stranding è proprio questo, un videogioco che non si prende troppo sul serio e, forte di questa forma mentis, ha la consapevolezza di non dover essere per forza ludico. Perché Sam è un Medioman, un essere che ad eccezione della sua capacità di risorgere dopo un game over – puro linguaggio videoludico – potrebbe essere uno di noi. Anche se non siamo noi a deciderne il nome inserendolo ad un terminale.

Un uomo che vuole a tutti i costi rimanere solo, ma che strada facendo si rende conto che è proprio questo, il melting pot di tutti i mali. Che sono i legami, le corde che tengono unito il mondo, anche alle soglie dell’estinzione di massa. Una connessione può fare la differenza tra il ricevere l’aiuto di cui si ha bisogno e il lasciarsi morire. A prescindere da quanto questa possa essere (o sembrare) blanda. Il perno attorno al quale ruota Death Stranding è proprio questo: da soli possiamo al massimo sopravvivere, insieme possiamo ricostruire anche una strada che attraversi gli Stati Uniti da costa a costa. In una settimana di gioco collettivo.

Anche se il gioco ci hanno detto non esserci, in qualche altra recensione di Death Stranding. Anche se in effetti rispetto ai crismi classici non si spara e ammazza e saccheggia. Eppure rimaniamo li, indomiti davanti ad un prodotto che ci hanno sussurrato essere deludente e che in effetti non è un videogioco in senso tradizionale. E non è – non può essere – solo culto per uno sviluppatore sopravvalutato, se si arriva a livelli da psicosi collettiva socialmente utile. Se in mille decidono di non andare avanti con l’esperienza, sacrificando il loro tempo, pur di costruire strade.

Pensa a quanto potremmo fare se la avessimo sempre, questa attitudine.
Se Dio fosse stato un designer migliore. Se l’uomo lo fosse per sé stesso.

Asylum For The Feelings.
Un vero e proprio manicomio per i sentimenti. Perché il gioco è ostico e spesso sembra voler fare di tutto per farsi percepire come tale, ma l’altra faccia della medaglia ci vede in collati per ore e ore e ore al controller.
Ci vede rimuginare su quello che abbiamo vissuto dietro lo schermo, quando infine non ci siamo più davanti, affaccendati con gli obblighi che la vita ci mette davanti.

Lo stesso manicomio che, al tramonto del rapporto di Hideo Kojima con Konami ha lasciato il giapponese solo proprio con quelle connessioni che in Death Stranding sono diventate centrali. Norman Reedus, Guillermo del Toro, Junji Ito… Quello che rimane di Silent Hills, in buona sostanza. Kojima riparte da qui, e ne parla anche apertamente in fase di promozione del gioco. Diventato indie, sono gli unici legami che gli restano. È la fase precedente al cordone ombelicale che porterà Death Stranding ad essere un’eslusiva (temporale) PS4 e ad utilizzare l’engine di Horizon Zero Dawn, quella dove Death Stranding è un semplice filmato in computer-grafica pre-renderizzata.

Il tempo dimostrerà che Kojima sbaglia: c’è un’altra connessione che ha, una a cui non pensa forse per scaramanzia, forse per modestia. O forse per paura. Quella con il suo pubblico, i superstiti dell’esplosione che percepiscono il filo rosso che li lega al designer giapponese anche in Death Stranding. La bomba dopo l’interrogatorio del primo Metal Gear Solid, la scazzottata finale di Guns of the Patriot. Il finale da mandar giù tutto d’un fiato, in un unica soluzione, di Sons of Liberty. Perfino l’eco di quella Sagrada Familia che è The Phantom Pain, perché inequivocabilmente Death Stranding ne riprende approcci e espande la vena politico-sociale di Kojima, che crollati gli argini può davvero parlare di quello che vuole. Il risultato è un prodotto mastodontico, che restituisce al giocatore l’impegno anima e corpo, Ha e Ka, che il team di sviluppo ma messo su disco.

Niente è lasciato al caso e ogni tema introdotto, fosse anche in qualche documento testuale di second’ordine inserito in-game, è funzionale a raccontare una storia. A costruire un mondo. Scienza, e astrologia, e storia: tutto insieme per costruire un background pazzesco, una coerenza interna che lascia senza parole. Un contesto dove poi respira una storia originale che ci racconta una sorta di deja-vu, una cover di Neon Genesis Evangelion che però percepiamo molto diversa dalla versione originale. Ha una sua dignità, suonata dagli strumenti musicali proprio del videogioco.

Quel Kojima che troppo spesso viene ridotto a regista, qui va oltre la regia.

Easy Way Out.
Metal Gear Solid 4 viene spesso definito un film con del gameplay a margine. In Death Stranding invece l’unità cutscene viene rotta per poi essere rimasterizzata sfruttando il linguaggio del medium, che è l’interazione. Dal semplice, dal dover premere un tasto per continuare, fino al complesso, alle trovate di design che stimolano il pensiero laterale con una maestria che solo in Kojima si trova espressa a questo livello. È Luci guida, anche nella morte, portato ai massimi termini.

Death Stranding
Consigliato a: 70€
Su amazon: 15,5€
Ogni singolo like lasciato alle strutture di altri diventa un elemento parlante, un segno tangibile di quelle connessioni di cui stiamo parlando dall’annuncio del titolo. Qualcosa che alla fine avrà delle conseguenze, un fiocco di neve che cade nel posto giusto e genera una valanga. È l’Oltreregia, qualcosa con cui un regista tradizionale non si trova a dover aver a che fare. Se un grande videogioco per essere riconosciuto come tale deve affrontare questo, Death Stranding lo fa. Non è un semplice esercizio di scrittura coerente, non basta semplicemente girare qualche scena mettendo gli attori davanti alla macchina. Il giocatore è la Particella di Dio, che avvolge tutta la creazione e con questa interagisce con l’obiettivo di batterla.

Ecco perché gli armadietti rimangono separati tra di loro, evitando che chi gioca approfitti delle meccaniche di gioco convenzionali per completare più agilmente una consegna. Perché la cronopioggia, se non si fa manutenzione regolarmente alle strutture proprie o degli altri, se le porta via. Ecco perché non ha davvero senso aggiungere altro, a questa recensione di Death Stranding: spiegare i trucchi di un illusionista ne svilisce il significato, fa evaporare quella magia residua che ormai solo il mistero e la non comprensione possono regalare. L’unico consiglio che ha senso dare, per prepararsi al numero, è quello di giocare il tutto in lingua originale.

In fase di adattamento qualcosa viene inevitabilmente perso…

Se qua siamo vaghi, intanto su Gameromancer.com il finale del gioco viene messo a nudo in tutti i suoi dettagli.

Verdetto
9 / 10
Siamo fortunati a poterlo raccontare
Commento
See the sunset
The day is ending
Let that yawn out
There's no pretending...
Pro e Contro
I will hold you
And protect you
So let love warm you
Till the morning

x I'll stay with you
x By your side
x Close your tired eyes
x I'll wait and soon

#LiveTheRebellion