Ho sempre pensato ai videogiochi come una valida forma di alternativa, ma mai avrei pensato che potessero generare isolamento sociale. Almeno fino a oggi. Quanti di voi si sono chiusi a chiave in cameretta, con solo uno schermo e una console come uniche forme di compagnia e intrattenimento? Avete mai saltato cena e fatto arrabbiare vostra madre pur di sconfiggere il boss finale (ed evitare un lunghissimo respawn)? Chi di voi ha preferito una partita a FIFA 20 piuttosto che una cena con gli amici? Tanti, pochi, non importa. Ciò che conta è che anche solo uno di questi innocui, ma non innocenti gesti, possono nascondere delle serie problematiche sociali e psicologiche, che in casi molto gravi, possono spingere alla morte una persona.

Tutto vero, è gia successo.

HIKIKOMORI, l’isola della solitudine

Come faccio di solito, ho chiesto aiuto ai miei amici della stanza “L’angolo dello Sfogo” presente nel noto social media Ludomedia. Ho chiesto lumi sul significato della parola Hikikomori e se aveva un senso associarla alla dipendenza dei videogiochi e a forme di isolamento sociale. Grazie a loro ho scoperto il prezioso lavoro svolto dal Dott. Marco Crepaldi, psicologo sociale ed esperto di comunicazione digitale nonché fondatore di Hikikomori Italia. Questa è la prima associazione nazionale che si occupa di informare e sensibilizzare circa il problema dell’isolamento sociale volontario.

500.000 casi accertati in Giappone, 100.000 in Italia.

Losing You, Dubbi
Il mondo e la società viaggiano a una velocità elevata. Vince il più bravo, il più capace, il più furbo, il più intelligente. E gli altri? Seguono la scia, il flusso, lo scorrere del fiume, sapendo esattamente dove li porterà. Ma esiste un gruppo di individui piuttosto eterogeneo che decide di ribellarsi, rifiutando l’attuale società. Loro si rifugiano in un’isola immaginaria che si chiama Hikikomokori e decidono di non aver contatti con il mondo esterno. Questa isola può essere una cameretta, un ufficio, un bagno o un ripostiglio. Un posto sicuro e psicologicamente lontano dagli altri.

Il problema è intorno a noi, ma non siamo in grado di vederlo.

Ok, ma che c’entrano i videogiochi con l’isolamento sociale?

Questa domanda me la sono posta immediatamente, pensando che il problema dell’Hikikomokori fosse solo di natura psicologica e non legato al tanto discusso “gaming disorder”, la dipendenza dai videogiochi. Invece non è proprio così. Il Dott. Marco Crepaldi mi ha fatto aprire gli occhi, fornendo una diversa chiave di lettura al problema. I videogiochi sono una valida forma di alternativa, sia ludica che sociale. Vi abbiamo dimostrato come anche coloro che hanno gravi patologie fisiche e motorie, grazie al nostro amato medium, hanno superato ogni forma di barriera.

Eppure esiste un dark side, un lato oscuro. Le persone colpite da Hikikomokori, come anticipato prima, amano trovarsi un porto sicuro, un rifugio lontano dalla società contemporanea. Nel farlo si agganciano a qualcosa a loro congeniale, uno strumento che li fa realizzare e al tempo stesso vivere una vita alternativa.

Ed ecco che i videogiochi entrano in scena.

Grazie a loro possiamo essere chiunque. Un cavaliere Jedi, un cyborg venuto dal futuro, un calciatore professionista. Ognuno di essi ci porta in una realtà alternativa dove noi siamo perfetti, senza problemi, con obiettivi da raggiungere e perfettamente alla nostra portata. Tutto con i nostri tempi e senza nessuno che ci giudichi. Un mondo ideale, non trovate? Peccato che è virtuale e intangibile. La ricerca di questa incessante necessità diventa ben presto un’ossessione e una droga. Ed ecco come arriva, puntale e precisa, la dipendenza da videogiochi.

hikikomori isolamento videogiochi sociale
Losing You, La situazione è questa, che ci piaccia o meno. Indietro non si torna.

E se fossero i videogiochi la cura?

Il buon Francesco Capuano mi ha suggerito una lettura molto interessante su questo argomento. È un racconto di Fabio Stassi tratto dal libro Cinquanta in blu. Otto racconti in giallo che si intitola a Forma di isola e parla del problema dell’Hikikomokori. Mi preme sottolineare un passaggio di questo racconto:

Sa, avvocato cosa bisognerebbe evitare, anche nelle situazioni più difficili? L’arroganza di riportare tutto a noi stessi. Lei era appena venuto a conoscenza del problema del suo ragazzo e già lo aveva trasferito a sé.

Fabio Stassi, a Forma di isola
Praticamente quello che ho fatto io quando ho appreso dell’esistenza di questo fenomeno. Ho cercato di catalogare il problema e trovare una soluzione razionale e secondo le mie regole. Poi mi sono fermato un attimo e ho pensato a Death Stranding e mi sono chiesto: e se fossero i videogiochi la cura per superare l’Hikikomokori e l’isolamento sociale? Pensate a Sam. Solo con uno zaino in un mondo sconfinato e regnato da avatar olografici. Eppure, non si ha mai la sensazione di essere completamente soli. La gente ti aiuta costruendo ponti, piantando corde, lasciando scale e cartelli sparsi qua e là.

Nessuno ci conosce ma ci aiuta.

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Losing You, Componenti.
Un videogioco, se ci pensate bene, altro non è che la massima forma di realizzazione sociale. Interi team di sviluppatori composti da persone tutte diverse tra loro, che uniscono le loro forze per creare qualcosa che nasce dalla condivisione delle loro idee. Il tutto per stabilire un contatto con voi e generare delle emozioni uniche.

Degna di nota, come fatta notare dal nostro capo Pietro Iacullo, è l’esperienza dell’anime Neon Genesis Evangelion. Nato dal genio creativo di Hideaki Anno, l’anime ha rappresentato la sua way out per uscire dalla sua isola della solitudine. Quando era sul punto di ritirarsi dall’animazione, nel suo massimo momento di depressione e tristezza, l’artista trovò la forza di reagire e costruire una sua autobiografia in chiave robotica. Shinji Ikari, il protagonista di Neon Genesis Evangelion, altri non è che il suo alter-ego versione anime, un adolescente insicuro che ha paura della vita. Evangelion diventa un fenomeno di portata mondiale, e Hideaki Anno, decide così di abbandonare la sua isola riscoprendo la gioia del contatto e della condivisione.

Magari sono un sognatore che spera nell’insperabile. Magari una diversa chiave di lettura del problema può aiutare a risolvere il problema facendo un lavoro di “reverse engineering”, dai videogiochi verso l’ Hikikomokori, realizzando una nuova forma di alternativa sociale. In fondo, alla fine dei giochi, siamo tutti come Sam.

Abbiamo tutti un nostro Death Stranding.

#LiveTheRebellion