Giuseppe Macor

Speciale Apologia per l’Ars Videoludica

Siete stanchi di essere circondati da persone che non riescono a capire che il videogioco può ormai essere definito ANCHE come una forma di espressione artistica? Oggi proverò, usando soltanto le mie modeste opinioni e alcuni dati per supportarle, a trasmettervi alcuni spunti per far partire tra voi e questi maledetti delle discussioni interessanti. Chissà, magari riuscirete a far cambiare idea a qualcuno!

Lo so: la tematica è spinosa, ampia e già sin troppo trattata ed affrontata. Spesso alcuni volti celebri dell’industry si sono pronunciati sull’argomento, anche andando contro le idee che esprimerò qui. Tra questi ad esempio abbiamo Shigeru Miyamoto (padre di “Super Mario” e “The Legend of Zelda”) e Hideki Kamiya (“Devil May Cry”, “Viewtiful Joe” e “Bayonetta”). Il primo, durante un’intervista con Glixel riportata da Digital Trends ha affermato:

“Non penso a me stesso come creatore di opere, penso davvero a me stesso come un creatore di prodotti con cui le persone si possano divertire. Per questo ho sempre chiamato i miei giochi prodotti e non opere d’arte”

Il secondo invece ha pubblicato sul suo profilo twitter una breve striscia di fumetti molto particolare sull’argomento:

Il fumetto di Kamiya

Credo però che non si possa negare che il medium videoludico si sta sempre di più imponendo come nuova forma di espressione artistica. È nata quindi in me la necessità di scrivere un discorso in difesa dell’ars videoludica in quanto parlare di tutto questo non può che fare del bene al nostro medium. Si potrebbe discutere per ore della definizione di arte e della connessione tra quest’ultima e intrattenimento, non è questo però lo spazio adatto per farlo (voglio ricordarvi che tutto ciò che è comunemente definito arte è molto spesso anche intrattenimento, basti pensare alla musica e al cinema). Se vi interessasse leggere un articolo dal taglio più accademico e tecnico, vi invito a leggere in seguito anche tutto ciò che il caro Antonino Lupo ha da dire sull’argomento nel seguente articolo!

Ritorsio

Andiamo, devo davvero spiegarvi perché alcune accuse fatte al videogioco ormai non si reggono neanche più in piedi? Frasi come “i videogiochi sono roba per bambini” o “20 anni e giochi ancora ai videogiochi?” non voglio nemmeno considerarle. Ciò che però mi sembra interessante approfondire è il rapporto tra il messaggio del videogioco e la mente del videogiocatore. Può quest’ultimo essere influenzato e plagiato? Molte persone (tra cui personaggi del calibro di Donald “alziamostocazzodimuro” Trump) indicano i videogiochi come la causa dell’eccessiva violenza giovanile. Ma cosa ci dicono gli studiosi? Anche tra questi vi sono diversi punti di vista e, se vi interessa leggere tutti i vari studi che si sono susseguiti sull’argomento potete approfondire a questo link . Tra tutti questi studi ve ne sono due in particolare che hanno attirato la mia attenzione: quello dello psicologo Christopher Fergusson (pubblicato sul “Journal of Communication”) e quello dei ricercatori delle università di Villanova e Rutgers (pubblicato da “Psychology of Popular Media Culture”). Fergusson è riuscito a dimostrare che una maggiore quantità di giochi violenti sul mercato non implichi una più alta violenza sociale, affermando che:

“Il consumo di videogiochi violenti nella società è inversamente correlato alla violenza sociale giovanile”

I ricercatori delle università di Villanova e Rutgers invece, dopo aver effettuato quattro analisi comparative tra il rilascio di giochi violenti e numero di crimini violenti, hanno invece affermato:

“Benchè sempre più persone siano state esposte a videogiochi violenti, i crimini violenti non sono aumentati. Sembra che gli effetti negativi dei videogiochi sui comportamenti violenti siano o inesistenti, o ridimensionati da altri fattori in grado di annullarli”

Penso che questi due studi possano rispondere tranquillamente alle accuse che vengono fatte al medium videoludico. E ora passiamo avanti che se parlo ancora di queste cose mi incazzo e faccio uscire fuori tutta la violenza che ho accumulato giocando per anni ai videogiochi!

Bisogna sempre distinguere tra reale e virtuale!

Apologia

Si sente spesso dire che il videogioco è un fratellino minore del cinema e, secondo la mia opinione, è assolutamente vero. La connessione tra i due media è innegabile e, molto spesso, vi sono stati tra loro incroci e scambi di linguaggio. Entrambi infatti si possono definire per me come “miscugli d’arte + uno”. Cerco di spiegarmi meglio: sia il cinema che il videogioco sono un insieme di diverse forme artistiche (musica, sceneggiatura, grafica digitale, fotografia e molto altro), ma entrambi hanno uno strumento artistico distintivo. Mentre per il cinema quest’ultimo può essere visto nella regia, qual è quello del videogioco? Secondo la mia opinione non può essere altri che l’interazione, inteso come strumento artistico in quanto capace di creare un legame tra videogiocatore ed opera attraverso il gameplay.

È più facile infatti, almeno secondo me, entrare in sintonia con il protagonista di un videogioco piuttosto che con il protagonista di un film.
A differenza del cinema infatti, il videogioco mette chi usufruisce dell’opera al centro dell’opera stessa. Al videogiocatore si chiede una partecipazione attiva e non passiva, egli è a modo suo il modellatore della sua stessa esperienza. Il videogioco ci permette di vivere -e non soltanto di guardare– tutto ciò che appare a schermo, siamo noi il centro intorno al quale tutto ruota. Tutto ciò fa sì che il videogiocatore si senta ancora più coinvolto emotivamente, in quanto ha un rapporto più diretto con i personaggi e con l’ambiente.  L’interazione può portare a nuovi orizzonti, soprattutto sul fattore estetico e quello narrativo. Gli esempi da fare sarebbero sin troppi, potrei citarvi opere come “Valiant Hearts“, “Journey“, “Persona 5“, “Shadow of the Colossus“, “Octopath Traveler” e qui mi fermo perchè rischio di trasformare questa parte dell’articolo in una lista della spesa. Menzione “ad honorem” va fatta però per opere del calibro di “Red Dead Redemption 2” e “The Legend of Zelda: Breath of the Wild” che ci permettono di esplorare attivamente delle ambientazioni che sono davvero dei “quadri in movimento” (non che i titoli citati prima non lo facciano eh, sia chiaro). Questi due giochi in particolare lo fanno però con due approcci diametralmente opposti riuscendo comunque a stupire in entrambi i casi. Lo stile estremamente realistico della seconda interpretazione del vecchio west by Rockstar Games si contrappone al tocco a metà strada tra il cartoon e il pittorico della nuova opera con protagonista l’eroe della leggenda. A differenza di un bel quadro, o di una bella scena in un film, chi usufruisce del videogioco si ritrova immerso in un’opera digitale che gli permette non solo di esplorarne ogni singolo anfratto ma anche di interagire con esso tramite il controller. Si potrebbe descrivere quest’ultimo sia come una macchina da presa in quanto permette al giocatore di modificare secondo la sua volontà la sua esperienza (sempre in base ai limiti imposti dal software), ma anche come un portale che riesce a trasportare il videogiocatore all’interno di un mondo vivo (e gestito da regole tutte sue) creato dall’essere umano. Ad esempio la libertà che il già citato (ma mai troppo lodato) Breath of the Wild dona al giocatore -grazie alla sua esplorazione totale, al motore chimico e alla “narrativa libera“-  riesce a farlo sentire contemporaneamente attore, spettatore e regista dell’intera avventura.

Valiant Hearts è un ottimo esempio di videogioco dal grande impatto sia estetico che narrativo.

Per quanto riguarda invece la narrazione, le opere del maestro Hidetaka Miyazaki (creatore della serie “Dark Souls” e “Bloodborne”) hanno mostrato come il videogioco possa raccontare una storia in maniera del tutto innovativa. Come tutti già sapete la lore dei souls è raccontata attraverso un’ambientazione curata e coerente, senza servirsi di cutscene o troppi dialoghi ma usando piuttosto descrizioni di oggetti ed elementi scenici. Lo stesso Miyazaki infatti affermò che:

Un mondo ben costruito potrebbe raccontare la sua storia in silenzio

Il caro Hidetaka Miyazaki ci mostra che è buona abitudine lodare il sole!

A parer mio questa narrativa silente che contraddistingue le opere di From Software è un qualcosa che è possibile trovare solo nel medium videoludico. Miyazaki trasporta il videogiocatore in un mondo sconosciuto, ed è solo vivendo in quel mondo che il giocatore può trovare spunti interessanti per riflettere su come mai esso si trova in quelle condizioni. Insomma, la vedo molto difficile riproporre qualcosa del genere in un film o in un libro!

 

 

 

“Despite everything, it’s still you”
Non si può poi non parlare di “Undertale“, altro capolavoro che riesce a trasmettere un messaggio utilizzando come strumento il suo stesso gameplay. L’opera di Toby Fox è riuscita ad ammaliare pubblico e critica nonostante l’apparente semplicità del titolo, ma come ha fatto? È semplice, al giocatore viene messa tra le mani un’alternativa a quella che da sempre è una feature principale di molti videogiochi, l’uccidere i mostri. Ed è proprio grazie a questo aspetto che la trama si evolve e si modifica in base alle scelte del giocatore. Sin dall’inizio dell’avventura infatti, viene spiegato che si può anche parlare con i mostri e salvare la loro vita tramite i comandi “ACT” e “MERCY” presenti nel menù della battaglia. Sta quindi al giocatore decidere se sterminare la razza dei demoni oppure cercare di trovare un modo per convincere ogni singolo mostro a non attaccarci. Fare ciò alla prima run può essere però molto difficile in quanto non uccidendo i mostri non si guadagnano punti EXP e quindi si rimane bloccati al livello 1.  Questo vuol dire ovviamente che nelle fasi finali di gioco anche un singolo colpo può ucciderci. Per apprezzare appieno il gioco è necessario infatti effettuare almeno 3 o 4 run, ma credetemi, questo non è un difetto. La prima run è quasi una run introduttiva, che lascia estasiati per come riesce -tramite geniali rotture della quarta parete ed idee di game design– a coinvolgere emotivamente chi si trova dall’altro lato dello schermo. Il gioco ti fa sentire una merda anche solo per aver pensato di attaccare i mostri come se nulla fosse. Ognuno di loro infatti ha la propria personalità ed il proprio carattere, sono esseri viventi, come gli umani. Proprio come questi ultimi anche loro si dividono in “buoni” e “cattivi”. Il giocatore è completamente libero di scegliere: credi che tutti i mostri debbano morire solo a causa della loro natura? Perfetto, ammazzali tutti a sangue freddo. Vuoi invece semplicemente salvare la tua vita e scappare dal loro regno? Vai e ammazza solo chi ti ostacola. Credi che sia ingiusto far del male ad un essere vivente solo in quanto diverso? Rimboccati le maniche, parla ad ognuno di loro e spiegagli che il tuo obiettivo non è ucciderli. Dopo la prima run ne vuoi sempre di più, ne inizi una seconda, una terza, fino a che non riesci a scoprire ogni singolo segreto di quel mondo così curato da sembrare reale nonostante la grafica retrò. Insomma, ci si avvicina al titolo per la sua fama o per il suo sistema di combattimento molto particolare, ma poi ci si affeziona ad esso per la poesia con cui riesce a raccontare una storia tanto semplice e banale quanto toccante e commovente.

E voi? Preferite combattere o adottare la via pacifica?

 

 

 

 

OGNI BATTAGLIA, OGNI STORIA, OGNI AZIONE, DIVENTANO LA MIA BATTAGLIA, LA MIA STORIA, LA MIA AZIONE.
Ciò che mi affascina di più del videogioco è proprio la sua capacità di risucchiarmi in altri mondi, riuscendo a farmi distaccare dalla mia persona. È grazie all’interazione data dal gameplay che riesco ad estraniarmi al punto tale da vivere esperienze fantastiche sentendole quasi sulla mia pelle.

Durante una visita al Van Gogh Museum una delle tante opere che mi colpì particolarmente fu “Natura morta con Bibbia”, composta dal grande artista in onore della morte di suo padre. La descrizione dell’audioguida citava una frase di Vincent:

La gente cerca Dio nei libri, io preferisco cercarlo nelle tele

In questo modo Van Gogh vuole farci capire che lui trovava nell’atto della pittura la stessa serenità che il cristiano trova nell’incontro con Dio. Potrà sembrare un’affermazione assurda, ma io cerco Dio in un ammasso di pixel attraverso un controller.

Van Gogh, Natura morta con Bibbia (1885)

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