Basandoci sulle premesse della pagina precedente, è evidente che è possibile individuare degli elementi artistici nei videogiochi. Ma sono abbastanza per parlare di “Arte”?
Quali sono gli elementi artistici tipicamente presenti in un videogioco contemporaneo, dunque? Finora abbiamo introdotto la questione con semplici riflessioni di carattere pseudo-accademico, ignorando volutamente di affrontarla finché tutte le carte non fossero ormai sul tavolo. È ora giunto il momento di iniziare a discutere in tal senso, allora: cos’è che rende tale un elemento artistico?
Quando si parla di arte e di artisticità, è inevitabile che in qualche modo ci siano degli elementi intrinseci alle opere d’arte che permettono agli esseri umani di comprendersi tra loro. Che sia semplicemente fare degli esempi di opere già esistenti per individuare uno stile o che si tratti di scendere in dettagli più “tecnici”, l’arte possiede comunque i suoi linguaggi (adoperati anzitutto dalla critica e dagli artisti stessi), utilizzati per affrontare temi complessi e convogliare idee autoriali ben precise. Sarebbe insensato affermare il contrario: una carrellata, nel cinema, è un fluido movimento di macchina in una direzione; la tecnica del chiaroscuro gioca sul rapporto tra luci e ombre, e così via. Il videogioco non è tanto diverso.
Una cosa è comunque evidente: finora, ci siamo riferiti implicitamente ad arti con un linguaggio autonomo, un linguaggio sviluppatosi nel corso del tempo. Che questo caso non si applichi ai video game è un’argomentazione diffusa, ma vuota e priva di senso al giorno d’oggi: il videogioco ha già sviluppato alcune delle sue estetiche, spesso basate su immersività e interazione, e nulla esclude che tali linguaggi possano evolversi, aumentando di numero e complessità nel prossimo futuro. Basandoci su queste premesse, questa seconda pagina esaminerà, nel modo più completo possibile, alcuni dei cosiddetti elementi “artistici” attualmente presenti nei videogiochi.
La Svolta Narrativa
L’uomo non può fare a meno di raccontare storie, nei videogiochi come in altre arti
Se il Cinema e la Letteratura ci hanno insegnato qualcosa sull’Arte, è che questa può esistere e aver valore anche quando ci sono delle storie di mezzo. E in modo implicito, in fondo, cosa sono certe sculture e certi dipinti se non delle vere e proprie storie, catturate nel loro momento più significativo? Questo perché, come insegna Jonathan Gottschall, l’uomo ha un innato “istinto di narrare” che ben si è manifestato attraverso i secoli, a partire dalle semplici pitture rurali fino ad arrivare a oggi. Non ci stupisce, dunque, che i videogiochi siano soltanto l’ultima tappa di un lungo percorso narrativo: ovunque ci sia la possibilità, per ogni nuovo mezzo di espressione creato dall’uomo, ci sarà sempre qualcuno che tenterà di raccontare una storia attraverso esso. L’Ars Ludica non è niente di diverso.
Persino ai suoi esordi, il medium non era certo esente da piccoli tentativi di raccontare storie: i primi videogiochi arcade (fuori dalle sale giochi, ma non solo) erano spesso accompagnati da un minimo di background narrativo, utile a giustificare i personaggi o gli elementi in gioco; storie semplici, poco impegnative e articolate in modo insignificante, certo, ma pur sempre un inizio. Le cose sono cambiate radicalmente negli anni Novanta, quando, con l’avvento della Quinta Generazione di console (PS1 / N64), vi fu un vero e proprio boom di “sceneggiature videoludiche”, con l’apparire di storie via via più complesse che potevano anche essere raccontate molto meglio, grazie ai nuovi mezzi forniti dall’evoluzione tecnologica: i personaggi su schermo non erano più semplici pixel dalle forme ancora troppo indefinite, e iniziavano ad avere delle voci e delle identità ben precise.
Da allora, le storie raccontate dai video games si sono evolute a dismisura, arrivando all’incredibile forza drammatica di titoli come The Last Of Uso la serie di Uncharted (il quarto capitolo in particolar modo), ma anche alla semplice poesia di To The Moon. Come altre arti (e il Cinema in primis), insomma, il videogioco ha iniziato a sfruttare elementi visivi per raccontare storie strutturate e pregnanti. Ed è proprio dal Cinema, sua Arte sorella, che ha preso maggiore ispirazione.
Una delle scene emotivamente più intense di Final Fantasy VII, tra i primi videogiochi a ricercare una storia complessa e strutturata: la morte di Aerith
Le Estetiche del Cinema
Basta dare un’occhiata ai vari e già citati The Last Of Us, Uncharted, Life Is Strange e molti altri per rendersi conto che i videogiochi costruiscono spesso i loro discorsi in costante dialogo con il Cinema, l’arte delle immagini in movimento per eccellenza, che ancora una volta ci ritroviamo costretti a citare. Non è difficile trovare splendidi esempi di fotografia in ciascuno dei titoli citati poco fa, e siamo tutti bene a conoscenza di casi (chi ha detto Hideo Kojima?) in cui il Game Designer ha persino assunto il ruolo di un vero e proprio “regista” nelle cutscene dei propri giochi.
Bastano pochissimi esempi, per rendersene conto: Metal Gear Solid V: The Phantom Pain utilizza spesso le estetiche della “telecamera a spalla” per accompagnare Venom Snake nelle sue missioni, con inquadrature traballanti durante le cutscene e dando un senso di dinamismo che è tratto direttamente dall’estetica cinematografica (anche con un magistrale uso artistico della Soggettiva, di cui potrete trovare un esempio nel video qui sotto); Shadow Of The Colossus utilizza splendidi campi lunghi, senza i quali sarebbe impossibile godere a pieno della bellezza del territorio circostante; qualunque first-person-shooter fa un massiccio ed esclusivo uso della soggettiva, l’inquadratura cosiddetta “in prima persona” sperimentata dal Cinema molti anni prima della nascita dei videogiochi, e da essi impiegata e adattata per sviluppare le proprie estetiche; Bayonetta vanta meravigliosi travelling e un montaggio frenetico degni del miglior film d’azione, e la lista di esempi potrebbe andare avanti potenzialmente all’infinito.
Ma fermarsi alla regia sarebbe un mostruoso errore: i videogiochi hanno costruito anche molti dei loro generi partendo direttamente dal Cinema, e adattandoli ai propri fini in modi sempre più fantasiosi. Ed ecco che, ad esempio, abbiamo L.A. Noir e Blues & Bullets, due splendide interpretazioni del genere Noir (che, nel secondo caso, ne adottano pure le estetiche visive vere e proprie); ecco i vari Battlefield e Call Of Duty, nient’altro che rivisitazioni ludiche dei war-movie; ecco gli innumerevoli titoli horror, i western, i polizieschi, i giochi di azione e di avventura, i thriller psicologici (Heavy Rain) e chi più ne ha più ne metta. Persino LIMBO, con il suo splendido gioco di luci e ombre, con il suo grottesco parco di sagome, sembra suggerire un chiaro rimando alle estetiche dell’Espressionismo Tedesco, grande parentesi del cinema muto europeo degli anni Venti.
Senza contare quelle che potrebbero essere le tendenze immediatamente future: Death Stranding conta già nel proprio cast almeno due attori famosi che hanno prestato il proprio volto per il gioco, facendo pensare che Kojima possa avere in mente di orchestrare una sorta di fusione tra Cinema e videogioco, e nulla fa credere che non possa riuscirci. Checché ne pensi Roger Ebert (che comunque scriveva la sua critica ai videogiochi nel 2010), quindi, i videogiochi non sono tanto lontani dal Cinema, ormai; e siamo convinti che il divario possa solo restringersi, col passare del tempo.
Il Distacco dal Cinema: Immersività, Interattività, Design e Game Design
Il videogioco è stato comunque in grado di sviluppare delle estetiche autonome
Ma, così come sarebbe un errore concentrarsi solo su alcuni aspetti delle estetiche cinematografiche tratte dal videogioco, sarebbe un errore anche pensare che l’industria videoludica non abbia sviluppato delle estetiche del tutto autonome, col passare degli anni, di fatto “distaccandosi” dall’eredità datagli dal Cinema, che pure ha costituito un consistente punto di partenza. La strada da fare è ancora lunga, non lo escludiamo, ma la spinta del mercato indipendente ha già fatto sì che qualcosa potesse iniziare a muoversi, e che nuove idee e sperimentazioni fossero in grado di ergersi da una standardizzazione dall’aspetto sempre più opprimente.
Anzitutto, la grafica: se c’è una cosa che il mercato indipendente ha insegnato, è che il realismo non è tutto e un videogioco può essere un capolavoro anche senza avere dei poligoni e delle texture con un livello di dettaglio estremo. To The Moon, in questo senso, è abbastanza esplicativo: un titolo con componente narrativa rilevante, con evidente forza drammatica e costruito semplicemente tramite RPG-Maker, in una pixel-art deliziosa, semplice e colorata. Una storia che coinvolge, tira il giocatore/spettatore a sé e che sembra funzionare proprio in quanto “videogioco”, grazie a uno stile grafico splendido e così innocente da essere in netto contrasto con i toni adulti e maturi della storia raccontata. Un indiscutibile capolavoro dell’arte ludica, se vogliamo, nonché una delle storie narrativamente più intense degli ultimi vent’anni; e di certo non l’unico titolo valido in Pixel-Art, uno stile grafico che ha visto anche titoli dallo spessore chiaro e indiscutibile (si pensi allo Sci-Fi metafisico VVVVVV).
Beyond Eyes, dal lato suo, seppe piegare, tempo fa, le regole del Game Design a uno stile incredibilmente affascinante. Impersonando una bambina cieca, il giocatore scopre lo scenario insieme a lei, camminando sui pavimenti e toccando oggetti che prendono forma e colore man mano che vengono approcciati. Un titolo lento, non ludicamente eccellente, ma che va vissuto dall’inizio alla fine come un’esperienza che coinvolge i sensi, immergendo il giocatore all’interno dell’ambiente di gioco e dentro una commovente e poetica storia di amicizia. In questo perfetto dialogo tra interattività e immersività, Beyond Eyes ha senso di esistere così com’è, e ci è realmente difficile immaginarlo diversamente.
This War Of Mine è anch’esso un caso emblematico: adottando un angolo di visione in “2,5D”, riesce a raccontare i drammi della guerra con un’efficacia e una forza comunicativa con pochissimi eguali in ambito videoludico. E, se vogliamo spostarci sul genere action e sui Tripla-A, Bayonetta e DmC – Devil May Cry sono due esempi perfetti per descrivere cosa può concepire uno sviluppatore sotto acidi: combattimenti frenetici, level-design folle e una enorme dose di trash artistico nella sua forma più pura, che difficilmente avrebbero avuto senso di esistere al di fuori del videogioco. E la lista potrebbe andare avanti ancora a lungo, ma non crediamo sia strettamente necessario richiamare ancora una volta i vari The Last Of Us, Uncharted e simili per provare il nostro punto: i videogiochi esistono grazie a un perfetto dialogo tra logiche di interazione e immersività, tra design e game-design, tra narrativa e stimoli ludici; un dialogo che fa sì che anche universi incredibilmente complessi (come quelli dei GdR fantasy in stile The Elder Scrolls o The Witcher) possano avere una propria coerenza, una propria forza e un proprio fascino agli occhi del giocatore / esploratore.
Il videogioco ha già iniziato a distaccarsi dal Cinema, sviluppando estetiche e linguaggi autonomi.
Nonostante sia partito dalle estetiche cinematografiche per formulare i suoi discorsi, il videogioco sta già iniziando a distaccarsi dal Cinema, ben cosciente che interazione, immersione e immedesimazione (oggi vicini a nuovi orizzonti, grazie alla Realtà Virtuale) fanno del video game un medium sempre più autonomo da qualunque altra arte, riducendo incredibilmente la distanza tra “giocatore” e “schermo”. Sempre più spesso, il videogioco è un’esperienza che come tale richiede di essere vissuto, e come tale viene inteso da sempre più giocatori; e non è difficile pensare a splendide produzioni come Journey, Okami e il meraviglioso Transistor per rendersi conto di quanta forza drammatica, evocativa e artistica possano avere i videogiochi. In altre parole, non c’è limite alla potenza espressiva che può essere raggiunta dal nostro medium preferito: ogni produzione videoludica può, potenzialmente, avere tutte le carte in regola per garantire un’esperienza artistica. Persino Pac-Man, a determinate condizioni.
La Ricerca
Con l’avvento del cosiddetto “videogioco d’autore” (che sia quello di Kamiya, di Kojima o dello stesso scenario indipendente) e lo sfruttamento di idee autoriali sempre più complesse, il medium videoludico ha iniziato ad acquisire i propri linguaggi, le proprie identità e delle estetiche che nulla hanno da invidiare a qualunque altra “arte” propriamente detta. Un’evoluzione che, se vogliamo, era già nelle potenzialità del medium fin dalla sua nascita, e che solo in tempi recenti sta raggiungendo delle vette che gli stessi padri del videogioco non si sarebbero mai potuti immaginare. La potenza espressiva del videogioco, di anno in anno più complesso e intenso nel raccontare le sue storie, è sempre più rilevante in campo accademico, e siamo certi che sia solo questione di tempo, prima che tutti i pregiudizi sul medium possano iniziare a crollare miseramente sotto il peso del progresso. Ma questa, insieme a una riflessione sul videogioco da un punto di vista più strettamente “analitico”, è una questione che rimandiamo a una prossima volta.
Okami, uno splendido tentativo di fondere arte visiva e videogiochi in un’esperienza unica
Vi basti sapere questo, per ora: i videogiochi e la loro ricerca di una dignità artistica hanno molti ostacoli di fronte a sé, e le soluzioni non sono certamente semplici. Ma qualcosa ha già iniziato a mutare: i temi affrontati dal videogioco si fanno sempre più seri (qualcuno ha detto Life Is Strange?), e sempre più titoli entrano nella lunga lista di “videogiochi artistici”, una lista che esiste concretamente (sul serio, la trovate su Wikipedia). Questo fa pensare che forse, in fondo, non è del tutto vero che, come diceva Roger Ebert, “i videogiochi non potranno mai essere Arte“. Non più, almeno.
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