Operazioni come quella dello Shadow of the Colossus 2018 sono necessarie, se ritenete i videogiochi una forma di cultura, prima ancora che di arte. E i videogiochi affrontano il tema del restauro (tra remake, remastered e cover) in modi inaspettati (migliori?) rispetto ad arte, cinema e musica.
Dite spesso che i videogiochi
sono arte, senza ombra di dubbio.
Giornate passate a strepitare nei commenti sotto qualche post, a difendere il vostro (nostro) hobby preferito dalle accuse di
istigazione alla violenza e desensibilizzazione, e ve la prendete con tutti quegli
illetterati che ritengono i videogiochi
opere di seconda classe, intrinsecamente
meno nobili – anzi,
meno rispettabili – di libri, musica, perfino di film e serie televisive.
A dispetto di tutto questo dite spesso che i videogiochi sono arte, ma non capite quanto siano fondamentali remake e remastered da questo punto di vista.
Ma perché i restauri servono?
È molto
semplice, in realtà. Remake e remastered – quelle che stiamo identificando sotto il termine imbrello di “
restauri videoludici” – sono necessari per lo stesso motivo dei restauri classici: permettere a tutti, a prescindere dall’anno di nascita, di poter avvicinarsi all’opera e preservarla quanto più a lungo possibile.
È la democratizzazione dell’arte, che non discrimina – per esempio – tutti noi che siamo nati quasi due millenni dopo il
Cristo e ci permette comunque di godere di opere realizzate prima della sua nascita.
Già, perché purtroppo
il tempo erode anche la cultura.
Abbiamo perso per sempre la possibilità di ammirare il
Faro di Alessandria e il
Colosso di Rodi. Se ritenete che i videogiochi siano arte, non potete in tutta coscienza accettare la possibilità che un domani qualcuno
non possa giocare Shadow of the Colossus. A maggior ragione quando a
Shadow of the Colossus sono state dedicate due operazioni simili (e con lo stesso fine) ma con intenti fondamentalmente diversi, visto che abbiamo già avuto modo di vedere sullo scaffale una sua
rimasterizzazione e ci apprestiamo adesso a mettere le mani su un remake.
Motivo per cui qualunque tipo di critica
non ha assolutamente senso.
Per chi non lo avesse ancora chiaro, tra un remake ed una remastered c’è
una differenza sostanziale: il remake, per quanto possa essere più o meno fedele all’originale e riprenderlo come modello, è da ritenersi comunque un nuovo prodotto, e viene (o quantomeno dovrebbe) realizzato
portando al giorno d’oggi l’idea originale, permettendole di sfruttare mezzi che non aveva a disposizione all’uscita. Nel caso di
Shadow of the Colossus, vuol dire che alcune scelte stilistiche prese da Ueda nel 2005 dettate dall’hardware di PlayStation 2 (per esempio, l’effetto “nebbia” che veniva utilizzato per mascherare l’orizzonte visivo) possono essere riviste. Perché adesso sotto al cofano ci sono decisamente più
Teraflops, e perché l’intento dell’operazione è
avvicinare all’originale tutti quelli che, per un motivo o per l’altro, non sono caduti vittima del fascino di Wander tredici anni fa. Per fare questo, è necessario ammodernare e azzardare qualche ritocco più deciso.
La considerate lesa maestà? Benissimo, giocate la remastered.
Un gioco di 15 anni è vecchio, nonostante tutto
A differenza di un remake, una rimasterizzazione è infatti un’operazione
meno invasiva, più simile ad un restauro tradizionale. Si prende l’originale e
lo si lascia per quanto possibile invariato, aumentandone la risoluzione e dando una pulita al tutto – le famigerate versioni HD, che tanto hanno causato scandalo alla fine della scorsa generazione e all’inizio di questa – senza modificare la sostanza. È un processo sicuramente più fedele e ugualmente importante (i remake servono a
diffondere il verbo, ma la preservazione dell’originale nella sua forma più pura è
importante e nobile allo stesso modo), ma che giocoforza non va a sfruttare appieno le tecniche che si hanno a disposizione oggi. E il risultato in ogni caso non è comunque l’originale 1:1, come d’altronde capita anche nei restauri nella Storia dell’Arte: la famosa Monna Lisa di Leonardo, in origine, aveva una colorazione diversa da quella che possiamo osservare oggi. Allo stesso modo
la tecnica invecchia: per quanto possa essere avveniristico, un gioco di 15 anni fa è
vecchio, anche dal punto di vista stilistico. Salvataggi manuali, mancanza di meccaniche che
ormai diamo per scontate (prendere un nemico alle spalle senza allertare gli altri ormai è la norma, anche al di fuori del genere stealth), molto banalmente anche il level design stesso o HUD e menu possono sembrare
anacronistici. Conoscere il passato è importante a prescindere da questi ragionamenti, ma
far partire un novizio dall’originale può essere controproducente: in questo senso, avere a disposizione sia un remake che una rimasterizzazione (o comunque un più facile accesso all’originale, che è l’aspetto su cui il gaming su console è più indietro rispetto alle altre forme di cultura) rende più semplice la diffusione del messaggio. Siamo sicuri che diverse persone che decideranno di giocare
Shadow of the Colossus attraverso l’imminente remake poi avranno la tentazione di gettare uno sguardo anche all’originale,
e magari anche agli altri due titoli del Canone Uediano (
ICO e
The Last Guardian).
Nel mondo dell’arte (architettonica, pittorica o scultorea che sia) quella del
restauro è prassi
sacra e inviolabile. Un lavoro immenso per compiere la “magia” di lasciare quanto più possibile
inalterati,
come chiusi in una bolla che ignora il tempo, i capisaldi della nostra cultura, il retaggio di generazioni di esseri umani, artisti che con le loro opere hanno contribuito all’evoluzione della
coscienza collettiva. A loro modo i videogiochi raccontano anch’essi la società, ne traggono ispirazione plasmandone poi l’essenza sul piano ludico, arricchendo il giocatore. Se però nell’arte i capolavori da preservare sono bene o male gli stessi da centinaia di anni, venerati giornalmente nei centri storici delle nostre città o al sicuro nei musei, il videogioco
corre ad una velocità incredibile e i capisaldi continuano ad essere creati, rilasciati e poi dimenticati,
bruciati e sostituiti da altri ancora migliori o semplicemente più mondani. Non si può certo rimasterizzare tutto, ed è qui che il
digital delivery e le verie retrocompatibilità e
Virtual Console entrano in gioco per
preservare quanta più
memoria virtuale possibile. Dovrebbe essere prassi di ogni sviluppatore e volontà di ogni major (
intese come Nintendo, Sony e Microsoft), rilasciare e favorire il rilascio di veri pezzi di storia,
entro i limiti del possibile (e del ragionevole), di generazione in generazione.
Nintendo lo fa ormai da due generazioni, anche in modo controverso, certo (
problemi legati all’account con migliaia di utenti che hanno ricomparato Super Metroid 56 volte… Presente!), dandoci la possibilità di recuperare i grandi classici della sue trentennale storia, Microsoft ha da poco deciso di fare
archeologia ludica con la retrocompatibilità della prima e gloriosa Xbox, mentre Sony, pioniera del concetto di
remastered, ha
abbandonato la retrocompatibilità dopo PlayStation 3 “fat”, senza però dimenticare di restaurare, di volta in volta, prima i capisaldi dell’era PS2 e poi le grandi esclusive PS3, riportando alla luce anche vere perle dell’era PSP come
LocoRoco e
Patapon. Un atteggiamento, quello di Sony, decisamente criticato agli all’alba di PS4, dove la mancanza di esclusive di peso si faceva sentire, ma una remaster è sempre nobile, perché è come un nonno che racconta un aneddoto al nipote, è possibilità di conoscere un prodotto altrimenti irrecuperabile, con una Nintendo che piano pianto sta portando su Switch tutti i grandi titoli della sfortunata Wii U, facendoli conoscere ad una platea finalmente numerosa e non più cieca. Cecità che
rimane, purtroppo, per titoli come
Okami…
ma non sempre la riproposizione porta giustizia
Se il concetto di “restauro” quindi lo si può vedere più come la riproposizione di classici “
al naturale“, esattamente com’erano il giorno dell’uscita, con la finalità principale di tramandare, la remastered trova un suo senso se confrontata all’universo cinematografico. Passare dalla VHS al DVD fu
un salto di qualità epocale, esattamente come tra dalla quinta alla sesta generazione di console, con l’avvento dell’alta definizione e la corsa allo schermo piatto che più portava benefici alla propria macchina da gioco. Un salto quasi
irreversibile, che mostrava tutti i limiti della risoluzione dei giochi di quinta generazione solo una volta attaccata la propria vecchia console e un monitor di ultima generazione. Qui nasce il secondo senso della rimasterizzazione, oltre alla memoria artistica: un gusto
prettamente estetico. 1080p, a volte anche un frame rate più stabile se non raddoppiato e di conseguenza la giustizia visiva che un titolo come, sempre lui,
Shadow of the Colossus (e ICO) meritava, esaltando oltretutto il lavoro di designer e artisti, nonché una maggior pulizia sonora.
Esiste però anche un altro modo per fissare nella memoria un classico. Un metodo molto diffuso in ambito musicale, dove la remaster è comunque una prassi per gli stessi motivi tecnologici di cui sopra:
la cover
Il concetto di cover, nei videogiochi, fa rima con indie
Axiom Verge è la cover di
Metroid, è stato sviluppato con questo scopo, mantenendo lo stesso testo e senso dell’opera originale, andando poi a
riarrangiarlo, togliendo uno strumento e aggiungendone un’altro, magari cambiandone ritmo o addirittura genere,
senza però intaccarne l’essenza. Come i Limp Bizkit che cantano Behind Blue Eyes degli Who, gli sviluppatori indie prendono spesso in prestito lo scheletro dei grandi classici anni ’80
per poi suonarci sopra la propria melodia, talvolta creando un prodotto ancora più godibile, altre rendendo omaggio e riportando all’attenzione del pubblico generi ormai dimenticati. Basti pensare alle prime avventure grafiche low-res rilasciate su Steam, ispirare ai grandi classici
LucasArts, capaci di smuovere una comunità ormai sopita, ai margini dell’industria ludica, portandoci alla situazione di riscopera che viviamo oggi, con la vetta toccata dal ritorno dello SMUMM e di Ron Gilbert con
Thimbleweed Park. L’arte è
apprezzabile anche superficialmente, ed è totalmente a
discrezione dell’utente decidere come
arricchire la propria mente, così come i videogiochi.
Ma chi vuole conoscerne la storia deve avere il sacrosanto diritto di poter giocare tutto e nel miglior modo (e nel modo più comodo), scoprendo o riscoprendo, ritrovandosi innamorato di un gioco che oggi sembra una pittura rupestre confrontata al Giudizio Universale, ma sempre big bang della cultura di un intero movimento, sparo di una corsa infinita di cui oggi stiamo vivendo un florido presente. Un appassionato di musica deve poter ascoltare Revolver dei Beatles, un cinefilo in erba deve poter recuperare la filmografia di Hitchcock e un innamorato di storia dell’arte avere la possibilità di visitare gli Uffizi, per poi, in treno, leggere i Promessi Sposi. Così come chi ha un pad in mano deve poter scoprire
Super Mario Bros.,
OutRun e
Final Fantasy VII,
godendone come se fosse il loro day-one.
Non si può non concludere senza nominare il proverbiale
elefante nella stanza, ovvero
l’aspetto tecnologico (che fin qui abbiamo solo
sfiorato).
Già, perché nessuna forma d’espressione (
o d’arte, o di cultura, o di quello che volete) legata all’ingegno umano è mai stata
così in simbiosi con la tecnologia come i videogiochi. E al di là di tutti i discorsi che si possono fare quando si dice che un codice sorgente ben scritto (o un problema risolto in modo creativo) debbano essere considerati arte o meno già di per sé, è ovvio che il progresso tecnologico abbia un impatto sui videogiochi che è molto più eclatante di quello che ha su letteratura, musica e anche cinema.
Siamo abituati a vedere la nostra vita videoludica sconvolta ogni tre o quattro anni: è naturale che, potendo, un creativo voglia riproporre una versione ammodernata della sua idea.
Ci sono i mezzi, c’è l’opportunità e il risultato finale poi è tremendamente diverso dall’originale. Se chiedessimo ad un redivivo Freddy Mercury di arrangiare una nuova versione di
I Want to Break Free, questa suonerebbe comunque
molto simile a quella uscita nell’84. Nella letteratura la cosa è ancor più marcata: siamo sicuri che (senza scomodare nomi troppo illustri) J. K. Rownling chiamata a riscrivere da capo il suo Harry Potter tirerebbe fuori grossomodo la stessa – e magnifica – saga che abbiamo imparato ad amare nel corso di questi anni. Per chi lavora a contatto con la tecnologia è
diverso… È bastato un upgrade di mezza generazione come quello di PS4 Pro e Xbox One X ha far smuovere qualcosa, a maggior ragione un balzo di due generazioni (e mezza) in avanti è potenzialmente sconvolgente.
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