Più si cresce, meno tempo si ha a disposizione da dedicare ai propri hobby. Nel caso dei videogiochi però la problematica è decisamente sentita: se leggere fuori di casa non è mai stato un problema e l’avvento degli smart device ha permesso anche a film e serie tv di lasciare le mura domestiche ed essere sempre a disposizione, giocare in mobilità ancora oggi fa troppo spesso rima con compromessi. Insomma, per un giocatore anche quei 60 minuti che l’ora legale ci ha “rubato” potrebbero fare la differenza. Come? Beh, proviamo a rispondere subito.
To the Moon
60 minuti in compagnia di
To the Moon sarebbero, in pratica, 60 minuti alla scoperta di come alla fine basti davvero poco per riuscire a smuovere nel giocatore corde che nemmeno lui sospettava di avere. Per quanto, alla fine, la componente ludica sia ridotta all’osso e il tutto sia realizzato utilizzando RPG Maker Freebird Games riesce ad emozionare e a portare chi subisce To the Moon alla soglia delle lacrime e anche oltre, realizzando con una manciata di pixel una storia dannatamente tridimensionale e totalizzante. Insomma, 60 minuti di lacrime, ma di quelle che è bello riuscire a versare perché certificano la riuscita di un prodotto.
Sunless Sea
Un’ora sicuramente non basta per prendere confidenza con
Sunless Sea, per capirne le meccaniche e probabilmente a raggiungere l’obiettivo finale del Capitano che si sta impersonando. Eppure, come in ogni roguelike che si rispetti, 60 minuti dentro il mondo creato da Fairbetter Games bastano a rimanere stregati dal fascino del prodotto, sedotti da quell’approccio trial and error che porta inevitabilmente a prendere la sfida sul personale e a far meglio partita dopo partita, viaggio dopo viaggio, vita dopo vita. Insomma, un’ora in cui si arriva in pratica solo a scalfire la sostanza di Sunless Sea. Ma un’ora che basta per decidere se essere dentro o fuori, abbandonare la nave oppure tornare a solcare i mari con una certa regolarità pur di perfezionare la propria esperienza.
Prince of Persia
Potevamo non inserire un grande classico? Ovviamente sì, ma d’altra parte sito nostro e regole nostre. Ma perché proprio
Prince of Persia? Facile, perché è un gioco che va completato
letteralmente in un’ora, pena incorrere nel game over e dover ricominciare tutto da capo. Perfetto insomma per essere giocato se l’orologio non fosse slittato in avanti a causa dell’ora legale. Nei panni di un protagonista senza nome, il giocatore dovrà sconfiggere il malvagio Visir (che ha preso sotto custodia la principessa) prima dello scadere dei sessanta minuti, liberando il regno dall’usurpatore. Dalle prigioni di palazzo allo scontro con Jaffar il principe (che diventerà tale solo alla fine del gioco) affronterà ogni sorta di pericoli, incluso un primordiale “Principe Oscuro” che ne rappresenta la parte malvagia e che può essere sconfitto solo se alla fine lo si accetta e si ripone l’arma nel fodero.
Metal Gear Solid V: Ground Zeroes
Criticatissimo (all’uscita) aperitivo all’altrettanto controverso The Phantom Pain,
Ground Zeroes è a tutti gli effetti l’equivalente del capitolo dedicato a Solid Snake in Metal Gear Solid 2: un prologo utile a prendere confidenza con i nuovi controlli da sfruttare come “palestra” in vista del resto di Metal Gear Soliv V. Ma non per questo dedicare un’ora a quello che è in effetti l’ultimo titolo pubblicato da Konami a recare sulla copertina il nome di Hideo Kojima vuol dire perdere tempo: al di là della valenza ludica del titolo le vicende raccontate sono fondamentali per tutto quello che viene dopo, e non manca qualche chicca ad uso e consumo dei fan tramite le missioni Deja-Vu e Jamais-Vu.
Un sesto di The Order 1886
The Order 1886 è indubbiamente un titolo visivamente molto spinto, quasi indiscutibile dal punto di vista tecnico e anche abbastanza solido dal punto di vista delle meccaniche di gioco. Il problema più grosso del prodotto firmato da Ready at Dawn, più che la longevità su cui stiamo ironizzando, è la mancanza di stimoli a rigiocare il tutto una volta arrivati alla fine. The Order è insomma il classico titolo capace di lasciare anche un buon impatto pad alla mano, che però una volta concluso si tende ad archiviare più che a rivivere. Per dirla in altre parole: il classico titolo che ad aver tempo si affronterebbe anche abbastanza volentieri, ma che in mancanza di questa materia prima è protagonista della fantomatica Pila della vergogna.
Stories: the Path of Destinies
Anche in questo caso un’ora sicuramente non basta a completare il titolo, ma permette comunque di affrontare qualche run (ogni partita diventa in pratica una “storia”, in cui il giocatore sulla base delle scelte compiute vede il corso degli eventi mutare… Sì, come in un libro-game). E quache run in compagnia di
Stories: the Path of Destinies vuol dire passare 60 minuti a ghignare per le battute, le citazioni e i colpi assestati alla quarta parete del narratore del titolo, protagonista all’ombra di quello giocabile ma in realtà vera star della produzione. Un aperitivo, che dopo la consumazione probabilmente si tradurrà in altre ore sottratte ad altro per arrivare a regalare a Reynardo il finale che merita.
Journey
Journey è l’esempio perfetto di titolo da giocare non appena si hanno 60 minuti a disposizione. È in pratica un classico moderno, un prodotto che ha contribuito a sdoganare l’idea di mercato indie (anche se sulla sua collocazione come “indie” qualcuno avrebbe da obiettare) e che, senza praticamente dire mai nulla esplicitamente, riesce a comunicare molto al giocatore. Inutile aggiungere altro, se non una banale considerazione su come sia un titolo che, piaccia o non piaccia, faccia ormai parte di quei classici moderni che vanno quantomeno provati una volta nella vita.
Pony Island
E parlando di titoli indipendenti non si poteva non citare
Pony Island, in quanto si tratta di un prodotto folle e poliedrico che riesce a spiazzare chi sta davanti allo schermo come poche cose, nel circolo non poi così ristretto dei videogiochi, sono riuscite a fare. Non tanto perché il gameplay cambia senza soluzione di continuità (rimanendo, sia una scelta stilistica o una scelta “furbetta”, comunque abbastanza superficiale), ma perché i temi affrontati e soprattutto il come vengono affrontati (lasciando ampio spazio sotto i riflettori a meta-riferimenti e ad altre cose del genere,
vincendo quindi facile nei nostri confronti) risultano dannatamente atipici. Lo abbiamo già detto e lo ripetiamo: invece di perdere tempo a leggere quello che scriviamo su Pony Island, fiondatevi su Steam e spendete ‘sti cinque euro. Se poi ritenete che siano stati buttati
affari vostri ci sapete dove viviamo.
Batman: Arkham VR
Si potrebbero ammantare le prossime righe di tante belle parole, di come la VR (soprattutto, la VR contemporanea) sia uno step importante per il medium e su come sia altrettanto importante che Proprietà Intellettuali pesanti e grandi nomi dell’industria partecipino al circo che contorna i vari visori. Si potrebbe dire questo, oppure in maniera molto più rozza ci si potrebbe limitare a constatare come
Batman: Arkham VR permetta al giocatore di essere per un’ora (o anche due) il meraviglioso, maledetto e dannatamente fighissimo crociato di Gotham City. E se non avete mai sognato di essere Batman almeno per un’ora, sappiate che c’è qualcosa di
profondamente sbagliato in voi.
Cercare quantomeno di portare avanti quel maledetto *inserire titolo a piacere*
Perché diciamoci la verità, tutti abbiamo quel titolo che era riuscito ad appassionarci ma che è stato messo da parte perché “non era il momento giusto per finirlo”, rimanendo poi sul groppone (e nella già citata Pila della Vergogna) fino a data indefinita, ora legale o meno. Ed è successo perché come si diceva in apertura il tempo a disposizione è sempre meno e, anche se anagraficamente si è cresciuti, davanti allo scaffale spesso e volentieri non si riesce a resistere all’acquisto dettato dall’impulso, da qualche offerta più o meno vantaggiosa o semplicemente perché sì. Alzi la mano chi non è colpevole, e sappiate fin da subito che chi non sta alzando la mano mente.
#LiveTheRebellion