Per credere in alcune leggende devi viverle, come recitava qualche giorno fa un’immagine promozionale dedicata all’ormai imminente The Last Guardian. E se una parte dei giocatori può credere alla “leggenda” di Team Ico, aspettando l’uscita dell’ultima fatica dello studio nonostante gli anni trascorsi e lo scetticismo tipico di questi scenari, è proprio perché ha vissuto ICO e Shadow of The Colossus sulla sua pelle, rimanendo influenzata dal mondo creato dalla squadra capitanata da Fumito Ueda. Eppure, puntando l’orologio indietro di due generazioni di console, ci si rende conto che, se pur accomunati da una filosofia ludica molto simile, ICO e Shadow of The Colossus sono due prodotti molto diversi, due facce agli antipodi che, messe assieme, formano quella medaglia che ha risposto con un inequivocabile “sì” alla domanda: i videogiochi possono essere arte?
Dire di più inserendo meno
ICO: puntare sul minimalismo per scelta (non per necessità) in un contesto in cui il medium diventava sempre più complesso
Non potevamo che iniziare un ragionamento di questo tipo dagli elementi più pratici, quelli che fanno riferimento alle meccaniche che si ritrovano nei due titoli usciti per PlayStation 2. Su questo fronte, come i più informati sapranno già, ICO si è affacciato sul mercato in una forma molto diversa rispetto a quella che era l’idea originale del team di sviluppo. Il gioco avrebbe dovuto includere un combat system decisamente più articolato, un cast di personaggi più nutrito ed una mappa sensibilmente più ampia. Nulla di tutto questo troverà posto su disco.
Il battle system di ICO, pad alla mano, è decisamente minimalista e lascia pochissime azioni a disposizione del giocatore, e tutta l’esperienza si va a sviluppare all’interno del Castello, unica location presente in-game, al cui interno si muovono in pratica solo i tre personaggi principali dell’opera (se si escludono i nemici d’ombra). Le motivazioni non sono però da ricercare a livello economico o da attribuire a ripensamenti di un team di sviluppo, magari convintosi di star facendo il proverbiale “passo più lungo della gamba”: molto più banalmente (o, sarebbe più giusto dire, molto meno banalmente), Fumito Ueda decide di sacrificare questi elementi perché non erano indispensabili per trasmettere il messaggio che voleva veder consegnato da ICO al giocatore, e anzi erano fonte di potenziali distrazioni. Tutti gli elementi non funzionali a quanto Team Ico voleva raccontare vengono quindi eliminati, seguendo un paradigma che lo stesso Ueda definirà poi design per sottrazione.
È insomma indispensabile che il giocatore, nei panni di Ico, aiuti Yorda a superare gli ostacoli, tenendo la ragazza per mano e simulando questi contatti prolungati grazie ai tasti frontali del controller, mentre, allo stesso tempo, degli aspetti che quasi legittimamente ci si aspetterebbe di trovare nel prodotto finito vengono ridotti all’osso o eliminati del tutto (anche esagerando con alcuni di questi tagli, come ammetterà Ueda più avanti). Il risultato finale, specie se si considera poi la mancanza totale di interfaccia a schermo e anche (quantomeno durante la prima run) di sottotitoli che permettano di capire i dialoghi di gioco, è che a risuonare nel silenzio dovuto all’assenza di accompagnamento sonoro è proprio quel messaggio che ICO voleva trasmettere.
Shadow of the Colossus corregge il tiro: è più "videogioco" di ICO
Dall’altro lato dello spettro si posiziona invece Shadow of the Colossus. Riconoscendo, come detto, di aver esagerato con le sottrazioni con il “prequel spirituale” del titolo, nel 2005 Ueda decide di inserire più sostanza ludica nel contesto delle Lande Proibite che Wander si vede costretto ad esplorare. Ecco quindi che Shadow of the Colossus presenta un’interfaccia a schermo più tradizionale, ad indicare salute e stamina del protagonista, ed inserisce anche una sorta di sistema di progressione legato ad alcuni collezionabili che è possibile raccogliere esplorando la mappa di gioco, decisamente più vasta e non più racchiusa dalle mura del Castello della Regina.
Sistema di progressione che a pieno titolo rientra in un contesto di possibilità extra concesse al giocatore, che non ha più davanti a sé solo l’obiettivo finale dell’avatar impersonato e può interagire anche con la fauna che abita la valle, giocando con i pesci presenti nei laghi o “agganciandosi” agli uccelli che ne attraversano i cieli. Se ICO era più simile ad un’esperienza, Shadow of the Colossus quindi (pur, come vedremo, rivolgendosi all’intimo del giocatore) assume tutti i crismi di un prodotto ludico più tradizionale, prova ne sia il fatto che le meccaniche di gioco, pur rimanendo comunque semplici, non sono più quelle abbozzate del titolo uscito nel 2001. E anche dal punto di vista del racconto la cornice, per quanto oscura lungo diversi tratti, è più chiara fin da subito, anche solo per il fatto che chi sta davanti allo schermo capisce cosa dicono quei personaggi che sviluppano la storia dall’altra parte del vetro.
Le meccaniche di gioco però, nel caso delle due produzioni Team Ico, sono quasi alla stregua dell’incarto che avvolge quello che è il vero regalo, quel messaggio cui accennavamo prima e sul cui altare Ueda, ai tempi di ICO, ha immolato tutti gli aspetti che non erano funzionali alla “diffusione del verbo”. ICO, da questo punto di vista, vuol raccontare al giocatore la storia del bambino con le corna e di Yorda, due rinnegati che loro malgrado si trovano prigionieri all’interno del castello è che possono uscirne solo contando uno sull’altra.
Una co-dipendenza in piena regola, visto che Ico senza Yorda non può attivare molti degli artefatti che liberano la strada verso l’ultimo atto dell’esperienza (e il giocatore, d’altra parte, senza la ragazza non può salvare la partita) mentre Yorda, venuta meno la protezione che le offre il bambino con le corna, verrebbe subito catturata dalle Creature dell’Ombra che vogliono imprigionarla. Una coppia che quindi, in fin dei conti, sta semplicemente lottando contro un destino ingiusto da cui i due devono difendersi (non farlo vorrebbe dire perdere la vita per permettere alla Regina di realizzare il suo piano), con uno scopo finale che quindi è “giusto” ed un’esperienza che, a conti fatti, lascia un messaggio essenzialmente positivo.
Wander agisce da solo e, in ultima analisi, spinto dall'egoismo: Mono non ha chiesto di essere resuscitata
Shadow of the Colossus parla un’altra lingua. Wander, se non per la presenza della fida cavalla Agro, affronta il suo viaggio in solitudine. Un viaggio in cui ha deciso di imbarcarsi volontariamente, assecondando il desiderio di riportare in vita Mono, rimasta vittima del suo “destino maledetto” (per usare le stesse parole del gioco). Non ci è dato sapere esattamente cosa sia successo, e quindi capire se Wander sia spinto dall’amore, dal senso di colpa o dal dovere. Sappiamo però per certo che quello del protagonista, indipendentemente dalla molla che abbia istigato le sue azioni, è un obiettivo essenzialmente egoista, ed in nome di questo egoismo Wander arriva addirittura a stipulare un vero e proprio patto col diavolo (rappresentato dall’entità che abita il Sacrario del Culto, Dormin): in cambio della vita dei sedici Colossi che abitano quelle terre, Mono potrà essere svegliata dal suo sonno irreversibile.
E Wander quindi segue questo percorso, abbattendo colpo dopo colpo creature che nella maggior parte dei casi sono inermi sotto i colpi della sua spada incantata e che fino a quel momento conducevano un’esistenza pacifica. A differenza del viaggio di Ico e Yorda, quindi, la spada di Wander combatte con la precisa volontà di attaccare, non per difendere, e non c’è nessuna “giusta motivazione” o bene superiore. Man mano che si uccidono i colossi, infatti, il gioco non manca di sottolineare (mai in modo esplicito, ma utilizzando immagini, voci ed elementi dello scenario) come Wander stia venendo sempre più risucchiato in un vortice di oscurità, che sul finale dell’opera di fatto andrà a maledire tutta la sua discendenza, visto che è proprio il protagonista di Shadow of the Colossus a dare il La alla stirpe dei bambini con le corna di cui fa parte Ico.
Due parti di un tutt’uno
I due lavori di Team Ico quindi sono produzioni che trattano temi diametralmente opposti, ricorrendo ad espedienti che filosoficamente non potrebbero essere più distanti. Eppure, come nel caso di Dormin, vale la regola degli opposti che assieme vanno a formare una creatura completa. In entrambi i casi il team di sviluppo ha cercato (e, a nostro modo di vedere, ci è riuscito, soprattutto se si considerano gli anni di uscita di due titoli) di toccare delle corde emozionali in particolare del giocatore, in ICO trasmettendo l’importanza del lavoro in simbiosi dei due protagonisti e con Shadow of the Colossus mostrando in maniera lucida quanto delle intenzioni nobili, portate all’eccesso, possano sfidare la ragione e portare su strade oscure. Non sappiamo, in nessuno dei due casi, cosa è successo prima dell’inizio del racconto e cosa succederà dopo. Sono variabili che però possono essere semplificate ed eliminate dall’equazione. Sapere in cosa consiste il “destino maledetto” che ha portato Mono alla morte o le motivazioni dietro il desiderio di immortalità della Regina non aggiungerebbe effettivamente nulla a quello che Ueda ed il suo team volevano dirci. Il fascino di ICO e Shadow of the Colossus passa, in fin dei conti, anche da qui: non il classico “dico-non-dico” studiato a tavolino per creare un alone di mistero artificiale, ma il coraggio di andare ad eliminare elementi che il giocatore darebbe per scontati perché, effettivamente, sono un artificio inutile.
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