Devil May Cry 5 è senza ombra di dubbio il Devil May Cry che i fan della serie volevano. Perché archivia il controverso esperimento dei gaijin britannici di Ninja Theory, trattenendo da quella parentesi solo un paio di aspetti. Perché ha imparato la lezione del precedente capitolo numerato, andando a correggere tutto quello che non andava e nascondendo sotto il tappeto le cose che non vanno e la cronica necessità di dover riproporre elementi presi dagli altri capitoli della serie.
Più di tutto, Devil May Cry 5 è una parata auto-celebrativa della saga che riesce a mettere ordine nel franchise di Capcom
Versione testata: PS4
Il più grosso merito di Devil May Cry 5 forse è proprio questo, il suo mettere ordine in una serie dai trascorsi travagliati (3 team di sviluppo diversi per 6 capitoli, e soprattutto l’allontanamento forzato di papà Hideki Kamiya). A volte facendolo anche in modo un po’ disonesto, ad esempio riposizionando nella timeline il secondo capitolo alle spalle del quarto (e non subito dopo), in un ennesimo tentativo di ignorare Devil May Cry 2. Intento giustificabilissimo, ma che lascia un paio di aspetti oscuri (come ha fatto Dante a tornare, dopo il finale del secondo capitolo?) e non chiarisce perché l’agenzia dell’acchiappademoni si chiama di nuovo Devil May Cry, non Devil Never Cry come nel finale del primo capitolo. Ma al netto di questo bisogna riconoscere che grazie a Devil May Cry 5 anche l’anime tratto dalla serie trova il suo posto nella mitologia del franchise, portando sullo schermo Morrison e citando Patty Lowell. Di più: senza anticipare nulla, viene finalmente data una spiegazione ufficiale sulla questione Tony Redgrave (fino a questo momento, se ne parlava solo nella novel Devil May Cry Volume 1 supervisionata da Kamiya e tendenzialmente fuori canone) e finalmente affrontata a schermo anche la paternità di Nero. Soluzioni a volte un po’ sbrigative, altre un po’ forzate, ma che fanno sentire i fan della serie a casa con costanti strizzate d’occhio e trovate auto-referenziali. Che non nascondono comunque una sceneggiatura poco brillante e colma di soluzioni prevedibili o anche già utilizzate all’interno della serie, ma ci costruiscono attorno giocando con la consapevolezza che in Devil May Cry la narrativa non è l’attrazione principale.
Capcom ha fatto centro
Prima di poter vestire i panni dell’acchiappedemoni per antonomasia, però, vanno giocate alcune sezioni nei panni di V. Personaggio tutto sommato inedito, e tutto sommato anche diverso da giocare rispetto agli altri due.
Si tratta di una sorta di evocatore, che combatte mettendo in campo delle creature riprese dal primo Devil May Cry (manovra di riciclo giustificata narrativamente, per i dettagli vi rimandiamo – di nuovo – alla recensione spoilerona di Gameromancer). Griffon, che nel primo Devil May Cry era uno dei boss, qui funge da arma da fuoco e da alcuni assist in movimento, consentendo il doppio salto. La pantera Shadow è invece l’arma di offesa principale, capace di colpire più duro ma solo a corto e al massimo a medio raggio. Chiude il trittico Nightmare, altro boss ripreso dal primo capitolo, che qui assume la forma di un colosso ma resta comunque in grado di lanciare terribili raggi laser. A differenza delle altre due creature, Nightmare è invincibile ma può rimanere in campo solo durante il Devil Trigger di V – Griffon e Shadow invece hanno una loro barra della salute, che una volta esaurita richiede un tempo di cooldown per ricaricarsi. Pad alla mano V risulta più semplice da utilizzare degli altri due comprimari – non è un caso se è il personaggio introdotto pensando ai neofiti – e ai suoi comandi è tendenzialmente più facile far salire l’indicatore di stile sopra la S. Un ottimo rompi-ghiaccio, che però può solo invidiare le combo scenografiche di Nero e soprattutto di Dante.
Ecco, Dante.
L’esperienza nei panni di Dante è dannatamente over-the-top
La base è giocoforza quella del quarto capitolo, con la possibilità di utilizzare in tempo reale gli stili principali introdotti in Devil May Cry 3 (GunSlinger, SwordMaster, RoyalGuard e Trickster). La differenza però è prima di tutto quantitativa, visto che si possono utilizzare 6 armi da fuoco e 6 armi bianche alla volta (quantomeno, di base). Con anche qui qualche ritorno e qualche riciclo (e qualche doppione), ma se è vero che conta solo il risultato finale allora bisogna ammettere che la quantità di mosse a disposizione è immensa, quasi soverchiante.
Usare Dante – usarlo davvero bene, a tutto tondo – è difficile e richiede impegno, ma ripaga con tantissima soddisfazione. Bisogna tenere sotto controllo lo stile selezionato (è chiaro che Trickster sia la scelta migliore per avvicinarsi e schivare, ma poi quando si deve far danno SwordMaster è la carta migliore), le armi equipaggiate e tenere d’occhio anche la barra del Devil Trigger, perché diventerà moneta spendibile anche per un’altra meccanica di gioco che non vogliamo anticipare. Bisogna anche tener conto del fatto che lo switch delle armi è monodirezionale, permettendo di passare alla prossima ma non di tornare alla precedente. Diventa chiave anche scegliere con coscienza l’ordine delle armi, in modo da massimizzarne la resa.
A proposito delle armi, che dire?
Si torna dalle parti di Devil May Cry 3 e dei suoi eccessi, e la cosa non può che fare piacere. Senza entrare troppo nei dettagli Cavaliere (la moto già anticipata dai trailer) è il giusto mix di efficacia e tamarraggine, ma in generale Capcom qui ha messo sul piatto diverse idee e restyling che poi pad alla mano funzionano. E si è concessa anche una scena davvero ai limiti del trash, a ridosso del finale, dedicata all’arma che più esce dalle logiche viste in un videogioco d’azione. Inutile scendere troppo nei dettagli, quando un video potrebbe mostrarvi il battle system in modo molto più efficace di quello che potremmo fare adesso a parole: vi basti sapere che se la direzione presa da DmC Devil May Cry vi aveva lasciato l’amaro in bocca, Devil May Cry 5 vira verso il classico.
Con un rovescio della medaglia.
Per quanto DmC possa non essere piaciuto, è impossibile non ammettere la riuscita di alcuni spezzoni di gioco. La Tresca del Diavolo (il livello nella discoteca) era un esempio di level design a tutto tondo, dove azione, platforming e sonoro lavorano in sincro per portare a casa un risultato alle porte del clamoroso. In Devil May Cry 5 non ci sono acuti in questo senso, col ritorno all’esplorazione alla Resident Evil alternata a sezioni dove si combattono i demoni. Anche il platforming accennato in Devil May Cry 4 qui trova meno posto, con qualche vaga eccezione quando si è ai controlli di V, ed in generale anche le promesse di multi-giocatore online alla fine non si traducono in differenze sostanziali nell’approccio ai livelli già visto nella serie (compare qualche bivio, ma tutto li). Ne consegue che anche sul fronte artistico l’attenzione più che sul mondo di gioco è sui personaggi, tirando fuori demoni convincenti e Devil Trigger davvero riusciti esteticamente, ma non regalando nessuno scenario davvero memorabile. O originale, perché capiterà di percepire un certo deja-vu.
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