Ti interessa preservare la storia del videogioco? Allora acquista QUI i libri di Bitmap Books. Questa feature in particolare è liberamente ispirata da 50 Indie Games that Changed the World, a cura di Aaron Potter.
Hashtag #adv e hashtag #gifted perché Bitmap Books ci ha mandato cose un paio di settimane fa ed è decisamente il caso di parlarne. 50 Indie Games that Changed the World, volumone di pregio dove Aaron Potter, giornalista dei giochini che ha scritto un po’ ovunque, seleziona 50 giochini piccini che hanno fatto la storia. E lo fa con una curatela un sacco intelligente,perché per esempio lascia ai margini cose di cui s’è parlato alla morte tipo Minecraft per dare spazio a chicche tipo Before Your Eyes, That Dragon Cancer e altre robe di cui abbiamo parlato tipo solo noi e i parenti dellə dev.
Ad ognuno dei 50 giochi selezionati sono dedicate 8 pagine, impreziosite non solo da screenshot e materiali grafici, non solo dalle “coordinate videoludiche” del titolo a cui è dedicata la scheda ma spesso e volentieri da interviste con i protagonisti dello sviluppo. L’immancabile Toby Fox, ma anche figure venute alla ribalta più di recente come Andrew Shouldice (il designer dietro Tunic) e Luca “Poncle” Galante (Vampire Survivors)… Per chi segue il mondo indie leggere questi nomi è un po’ come ritrovare quello di un vecchio amico sul giornale.
I contributi non arrivano solo da indipendenti nel senso stretto, per esempio dando spazio anche a Jenova Chen, creative director di thatgamecompany che in 50 Indie Games That Changes the World contribuisce alla sezione dedicata a Journey, pubblicato prima da Sony su PS4 e poi da Annapurna Interactive su PC. Non è un argomento nuovo, da queste parti: la definizione di indie è diventata via via sempre più ineffabile – Journey di questo processo è peraltro uno dei grandi protagonisti –, e anche per questo le scelte fatte da Aaron Potter sono indovinate.
Il contributo che proponiamo oggi è quindi qualcosa di ispirato da 50 Indie Games that Changed the World, prendendo tre giochi che per un motivo o per l’altro rispondono ad un criterio di indipendenza e scegliendo di raccontare come hanno cambiato il nostro, di mondo.
At Doom’s Gate
C’è una scena ne Il colore dei soldi dove Tom Cruise si presenta in una sala da biliardo con una stecca personalizzata dentro una valigia. “Cos’hai li dentro?”, gli chiede qualcuno. “Doom”, risponde Cruise con un sorriso arrogante. Quella scena e la carneficina che ne segue era come vedevo noi che presentavamo il nostro gioco al resto dell’industria.John Carmack (citato in Masters of Doom)
Non siamo abituati a pensare a DOOM come a qualcosa di indie. È uno dei franchise più rilevanti nella storia del medium, ha inventato il deathmatch, ha ucciso la produttività mondiale al punto che ad una certa era più installato su PC di Windows 95 (e non a caso Bill Gates lo vorrà assolutamente utilizzare come ariete per promuovere le sue DirectX).
Eppure nel 1993 id Software era a tutti gli effetti uno studio che oggi chiameremo indie. Non aveva un publisher, e infatti DOOM uscirà come shareware – un modello di business che in sostanza permette di scaricare aggratis i primi 3 capitoli del gioco, il resto poi si paga – e verrà distribuito prevalentemente attraverso Internet. E non tramite qualche client dabbene tipo Steam (che all’epoca ovviamente manco esisteva): la prima versione pubblicamente disponibile di DOOM andava scaricata dal server FTP dell’Università di Wisconsin-Madison.
Server che crasherà 10 minuti dopo la release per le troppe richieste di download contemporanee
Ora, raccontare questo all’alba del giorno dopo aver visto Hollow Knight: Silksong mandare offline Steam – posto che la cosa era abbastanza orchestrata, non ti han fatto fare il pre-download del gioco proprio per poter costruire l’ennesima notizia che alimenta il culto di Silksong – fa un po’ sorridere perché parliamo di numeri che sono ridicoli, con l’occhio di un 2025 dove un team di scappati di casa ha appena fatto 600mila player contemporanei. Però l’ho detto che era il 1993?
Sforzati di pensare a cosa sai del 1993 e vedrai che è un risultato altrettanto incredibile.
Non c’era la banda larga. Il World Wide Web esisteva da appena 3 anni. A livello di giochini ci si informava prevalentemente sulle riviste in edicola, e id Software peraltro nasceva come software house che sviluppava giochi da allegare a queste per alzarne la tiratura. Non c’erano social su cui diventare virali e non c’erano streamer che diffondessero il verbo per te, c’erano praticamente solo ‘sti negozietti anche un po’ sfigati dove si vendevano i giochini e il mercato era praticamente solo retail.
Alla mezzanotte del 10 dicembre 1993 una decina di stronzi lo stava piantando in culo ad Electronic Arts, ad Acclaim, perfino a quella Nintendo che tre anni prima aveva risposto grazie ma no grazie alla proposta dei due John (Carmack e Romero) di portare su PC Super Mario Bros. grazie all’engine che poi ha reso possibile il platform su PC con Commaner Keen.
La cosa che forse rende meglio le dimensioni di quello che è stato il Big Bang generato da Doom è un aneddoto che coi videogiochi c’entra molto poco. Nel 1995 Carmack è finito sulla lista nera di Ferrari – ovviamente quella Ferrari – e non ha potuto di conseguenza acquistare la F50 in uscita quell’anno. Il motivo? L’aver modificato le tre altre Ferrari che aveva comprato dopo l’uscita di DOOM. Una di queste, tra l’altro, nel 1997 verrà messa in palio al Red Annihilation, uno dei primi eventi eSportivi della storia del medium dedicato a Quake.
Ok, però te sei del ‘91, nel ‘93 avevi due anni scarsi. Come ha fatto a cambiarti la vita tutta questa storia? L’ha fatto perché è la storia che mi ha fatto vedere per la prima volta dietro ai videogiochi.
DOOM è uno degli artefatti videoludici che ha più connessioni con altre storie del medium
Per esempio lo sapevi che WinDOOM, la versione per Windows 95, è stata sviluppata da Gabe Newell? Seguendo queste connessioni mi sono innamorato dei videogiochi non come oggetti, ma come storie, quelle storie che ancora oggi sono probabilmente la cosa che preferisco quando parlo di giochini, anche più del discuterne il design.
Il gioco secondo cui “la trama nei videogiochi è come la trama nei film porno” mi ha spinto ad appassionarmi alle trame di chi i videogiochi li fa.
Ninja’s Sacrifice
DOOM è soprattutto la storia di un gruppo di disadattati che voleva fare la differenza in un mondo che li aveva sempre respinti. È un po’ la storia di Gameromancer, ma penso che in generale sia uno dei grandi livellatori, qualcosa in cui diventa facile riconoscersi, diventa naturale fare il tifo.
Tre dei miei disadattati preferiti sono Tameem Antoniades, Nina Kristensen e Mike Ball. Hanno fondato nel 2000, a Cambridge, un team di sviluppo di assoluti scappati di casa che voleva fare un giochino sul kung fu. Il team si chiamava Just Add Monsters. Il giochino, Kung Fu Chaos.
È una storia che ho già raccontato, e che andando avanti veloce porta Just Add Monster, che nel frattempo è diventata Ninja Theory, prima a ideare e poi a pubblicare Hellblade: Senua’s Sacrifice.
È una storia che ho già raccontato e che quindi non sto a ripetere. Quello che nella monografia su Ninja Theory non si poteva raccontare è il Big Bang che ha causato Hellblade, perché a quel punto questa smette di essere la saga di Tameem, Nina e Mike e diventa di tuttə noi.
Diventa la storia di come Hellblade ha permesso ai Doppia-A di rinascere dopo essere nato anche grazie alla loro crisi, perché in quegli anni nessuno avrebbe mai dato luce verde ad un altro progetto come Enslaved: Odyssey to the West ed è per quello che Ninja Theory arriva a quella scommessa che chiama “Indiependent AAA”. È la storia per cui un gioco uscito lo stesso anno di Breath of the Wild e di Horizon Zero Dawn – lo stato dell’arte di quell’annata – riesce a raggiungere il break event point (fissato a sole 20mila copie) così velocemente per cui sui fogli di calcolo dei publisher di giochini inizia a ricomparire la possibilità di sviluppare qualcosa di più piccolo, capace di costare poco e guadagnare in proporzione molto.
Quest’anno un sacco di gente s’è strappata il cazzo indicando Clair Obscur: Expedition 33 come il futuro del videogioco. La risposta all’insostenibilità dei Tripla-A, ai giochi sempre più grossi e sempre più rischiosi, ad un medium che ha venduto la sua anima creativa al diavolo e non riesce a liberarsi dal marchio della bestia del dollaro.
Hellblade dava la stessa risposta 8 anni prima. E anzi, se oggi abbiamo potuto giocare i Clair Obscur, gli Hell is Us, gli A Plague Tale, è anche merito di Tameem, Nina e Mike.
E questo secondo me è il miracolo meno interessante che ha fatto Hellblade, la cosa per cui è facile ricordarlo perché basta guardare cosa usciva prima e cosa è uscito qualche anno dopo. Il mio mondo da Hellblade è stato scosso per il suo design, mica per ‘ste cose capitaliste.
E allora perché alla Games Week 2017 io e Calzati abbiamo chiesto cosa pensavano del Big Bang industriale di Hellblade agli sviluppatori indie in loco?
Or Dive Trying
È una domanda che in altri anni, anni successivi a quella Games Week 2017, in realtà poi ai dev italiani non ho posto più. Non l’ho fatta, in particolare il 16 luglio 2021. Che è successo di particolare quel giorno? È il day one di un gioco che non ha avuto una grandissima fortuna. Si chiama Stack Up! (or dive trying), e proprio la sera di quel day one siamo d’accordo coi dev per registrare quello che diventerà il DLC numero 42 del podcast.
I dev non hanno dato particolarmente peso alla cosa. “Che vuoi che possa succedere”, e quindi iniziamo a registrare. Solo che durante la registrazione succede che uno streamer da due milioni di follower decide di twitchare proprio Stack Up!, i download su Steam salgono in modo smodato – purtroppo a fine live pure i refund, ma è la storia di un altro DLC del podcast sempre registrato con loro – e i server del gioco vanno subito a collo.
Anni dopo quando ci ripenso mi sento più o meno ancora così, come avevo scritto nel copy che accompagna la puntata sul blog.
Cosa succede al day one di un gioco? Succede la vita. Succede che Forsen così, de botto, senza senso inizia a twitchare il tuo giochino e fa 12mila persone. Succede che vai nel panico perché i server tengono solo 50 persone e allora vai a comprare di corsa l’upgrade perché non si sa mai. Il tutto mentre stai aspettando che arrivi il fattorino con la pizza, sei in mutande e dall’altra parte di Skype c’è il faccione di uno stronzo che manco conosci. Succede che durante la registrazione tieni un occhio sulla live perché cazzo, come fai a staccarceli? Che quando il gioco crasha vai un attimo nel panico e inizi subito a fare il debug. Anche senza la console di sviluppo.Succede che succedono un sacco di cose ed è bello anche solo fare il voyeur. Spettatore non pagante di un miracolo chiamato Game Industry che oh, ogni tanto attecchisce anche in Italia.
StackUp! non è Hellblade e PixelConflict non è id Software. Eppure.
Eppure se dovessi stilare una top delle cose più belle che mi son successe grazie a Gameromancer questo aneddoto sarebbe nelle prime posizioni. Eppure quel pomeriggio ho toccato la prima volta con mano quanto Twitch possa cambiare la vita ad uno sviluppatore, portandolo dalla grazia al pollice verso quando poi a fine live un sacco di stronzi decidono che tutto sommato quei 5€ gli stan meglio in tasca che tanto con Forsen han già giocato.
Eppure anni dopo ho ancora voglia di raccontare storie, queste storie. Non perché penso che sia giusto farlo (spoiler: è giusto) o perché ci si fanno i like (spoiler: non ci si fanno i like).
Ma perché aggiungono altro valore ad una cosa che per me è già senza prezzo.
Questo contributo è stato originariamente pubblicato come parte de La Voce della Ribellione, la newsletter di Gameromancer.
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