“…Anche nell’oscurità, la bellezza del mondo è sempre li…”
Hellblade: Senua’s Sacrifice è un’opera che le parole possono descrivere solo in parte. Bisogna esserci, bisogna entrare sotto la pelle, nelle fibre muscolari tese e nel groviglio cerebrale di
Senua, vedere il mondo con i suoi schizofrenici occhi azzurro cielo, spiritati, ipercinetici, intraprendere questo
viaggio di morte,
amore,
follia e speranza instaurando un rapporto di intimità, aiuto reciproco, tendendole sempre una mano ed esasperando l’emotività oltre i limiti immaginabili, andando quasi a pensare di star vivendo davvero questa palpabile allucinazione, così estraniati dalla nostra realtà e gettati nell’oceano della psiche con una pietra legata alla caviglia. Così come nessun individuo sano di mente saprà davvero cosa si prova ad avere disturbi psicotici,
il videogiocatore tradizionalista non può immaginare quanto possa essere inedita,
terrorizzante e insondabile l’esperienza prima studiata con cura maniacale, insieme a medici ed ex-pazienti, e poi altrettanto passionalmente scolpita nel codice da
Ninja Theory. Perché non vi è metro di paragone emozionale forse in nessuna arte per calibrare questo titolo.
Un capolavoro che raggiunge nuove vette del gameplay psicologico, rapendo le percezioni del giocatore non solo per scioccarlo ed estasiarlo, fargli sentire il peso di ogni passo, turbarlo e disorientarlo ad ogni allucinazione, aumentare i battiti del cuore ad ogni rumore che vive fuori o dentro la testa della nostra eroina, ma soprattutto per come queste sensazioni sono utilizzate a fini ludici.
Il disagio come estrema forma d’arte e divulgazione, sia a livello meramente videoludico così come sensibilizzazione verso patologie oscure, inconcepibili, criptiche.
Amore, morfina dell’anima afflitta, adrenalina del gameplay
Un pellegrinaggio desiderato e inevitabile, assorto, vissuto un passo dietro a Senua, guerriera maledetta, rinnegata, in lotta con sé stessa e la sua società, intrapreso per salvare l’anima della sua unica fonte di luce e calore, il suo amato
Dillion, vittima di quei terrori annidati tra le terre selvagge, marce e corrotte dell’Helheim, il regno dei morti della mitologia norrena, o almeno questo è quello in cui si trasformano i territori a nord del Vallo di Adriano, oggi Scozia, filtrati dal setaccio della sua mente spaventata e folle.
La depravazione e la brutalità delle popolazioni autoctone, guerrieri formidabili e conquistatori insaziabili, che si insinua nei suoi già allucinati e confusi pensieri, trasformando le ombre in coloro che hanno martoriato l’amata metà, di cui Senua tiene legata alla vita la testa, in una sacca di juta, ormai spettro mortale della bellezza che fu.
Hellblade rapisce le percezioni del giocatore per asservirle al gameplay, che diventa così emozione purissima ed esperienza inedita.
Deve compiere la sua missione prima che sia troppo tardi, sacrificarsi alla dea Hela per salvare l’unica persona che l’ha amata nonostante l’oscurità che le cresceva dentro, ogni giorno più ingombrante, affamata di luce e di felicità.
Preda di religione,
superstizione e tradizioni, i pensieri stretti nella morsa di mille voci, le sue personalità, chi la vuole aiutare e chi schernirla, dirottarla, deprimerla, la voce della sua stessa malattia, del dispotico padre, della dolce madre il cui viso appare ore dentro una cascata, ora tra le tegole di un tetto, la voce di Dillion e del colto Druth, uno dei suoi pochi amici, dentro e fuori dalle nere pareti del suo cervello.
Travolgente simulazione di una delle condizioni umane più terribili e misteriose, quasi affascinante nella sua tristezza, realmente sconsacrata dalla scienza solo nell’ultimo secolo.
Il racconto non è però passivo, tutto accade in presa diretta, mani sul pad e cuffie nelle orecchie, perché tutto quello che avete appena letto non è narrato, se non in minima parte, attraverso scene d’intermezzo.
L’atmosfera sospesa tra sacro e profano, vita e morte si può toccare, respirare, vedere e soprattutto udire.
Il miglior sound design di sempre, nuovo metro di paragone sonoro che insinua nella nostra testa le voci che affliggono la nostra compagna,
fecondando un gameplay che ruota tutto intorno alle percezioni, più che mai attive e coinvolte, evase dalla gabbia dell’orpello estetico-narrativo per esplodere in un avvertimento, un attacco alle spalle incombente, invisibile e letale se non disperatamente parato sulla fiducia.
Sono espedienti sapienti, colti, specchio di un lavoro fuori dal comune che parte dai dettagli, come anche l’ormai conosciuta sezione alla cieca, nella quasi totale oscurità;
bisogna provarla per comprenderla in tutta la sua potenza. La vista neutralizzata acuisce gli altri sensi, il tatto, sollecitato dalla vibrazione del controller, l’udito, teso per sentire il dolce frusciare dell’acqua attraverso il respiro affannoso, corto, una flebile luce che filtra da un punto imprecisato, il panico, la speranza, sensazioni che vengono vissute dal giocatore, non simulate. Eccezionale. In un mondo ludico che nelle grandi produzioni guarda sempre di più ai tempi e ai modi del cinema, Hellblade li relega alla magistrale interpretazione di
Melina Juergens, col fine ultimo di raccontare una storia di umanità più che di eroismo, di problemi più che di soluzioni.
Eppure al tempo stesso Hellblade è un’opera narrativa incredibilmente stratificata, dove i racconti dai toni quasi biblici di Druth sulla mitologia nordeuropea diventano collezionabili culturali, la voce narrante ci parla direttamente, come a spronarci ad andare avanti ed aiutare la guerriera nonostante la paura che condividiamo con lei, fino al piano più personale, quello di Senua, del suo presente e dei suoi ricordi.
Lei.
Viva,
tangibile,
talmente tanto da dare l’impressione di poter allungare la mano verso la sua per confortarla, tranquillizzarla, darle il coraggio che talvolta le manca, diamante di una personalità e una psicologia plasmata in creta virtuale. Un diamante dalle mille sfaccettature, dai mille conflitti, in cui si mescolano abissi di sconforto e follia con ricordi felici, dove il sole splende sul suo viso candido, spettro di un presente ferito, sporco, psicotico. Una lotta impari con la malattia che si trasforma in una battaglia sanguinosa tra lei e gli dei, lanciando noi, la sua parte lucida, in
scontri dalla giocabilità solidissima,
disperati,
viscerali e fisici,
rabbiosi. Fendenti menati con una forza brutale, accompagnati dalle urla delle corde vocali e del metallo, calci per aprire la guardia ai nemici scudati, le percezioni che si acuiscono per rallentare il tempo, circondati, le voci concitate che ululano nella testa, come gli spettatori in un’arena.
Le terminazioni nervose sono in questo modo costantemente sotto stress, l’adrenalina scorre copiosa e le endorfine, infine, leniscono, davanti alla fatica che comunicano le animazioni, colpi inferti e subiti, tensione pronta a diventare un picco nel nostro elettrocardiogramma quando entreranno in gioco, o meglio, nella nostra testa, i boss, manifestazioni fisiche di suggestioni, incubi, credenze, eccezionalmente caratterizzati e beatamente favolosi da studiare, combattere ed esorcizzare.
Ogni crisi allucinatoria superata è un sanpietrino sul sentiero tracciato dagli sviluppatori, unico, i cui confini sono tanto invalicabili nell’esplorazione quanto incredibilmente ricchi per gli occhi, capaci di perdersi nei dettagli più insignificanti, il dolce suono del mare, un momento di luce, le montagne che incorniciano l’orizzonte, l’inquietante mostro di legno, ferro e roccia dell’Helheim che sormonta tutto e osserva i nostri movimenti.
Un mondo che alterna natura,
architettura,
simbolismo,
le brutalità del sacrificio umano e della violenza barbara,
per poi ribellarsi alle pupille per diventare illusione, imprimendo rune nella retina che danno vita ad enigmi prospettici di intrigante fattura, mantenendo sempre costante il parallelismo tra emotività narrativa e gameplay, portandoci ad esplorare, osservare, azionare meccanismi e ragionare in preda al panico. Foreste lussureggianti che prendono fuoco all’improvviso, rovine che ritornano agli antichi splendori e viceversa, cambiamenti impercettibili negli ambienti capaci di insinuare il dubbio e portare il cuore all’altezza della gola. Proprio gli stress test sono i momenti più riusciti a livello meramente ludico ed estetico, così visionari, affascinanti, ricchi di trovate geniali unite ad altre decisamente più mainstream, travestite però con grande gusto e furbizia per limitare al minimo il senso di déjà vu e riuscendo a convincere e coinvolgere sempre.
Provando a spogliare il gioco del suo sensuale abito sensoriale ci si ritrova comunque davanti ad una nudità solida pur certamente non innovativa nel suo loop esplorazione-enigma-combattimenti-boss, forme perfette per essere vestite con la vera innovazione appena descritta, quella che rende protagoniste come mai prima d’ora le percezioni del giocatore, parole che comunque lasceranno scettici, com’ero io, chi non ha ancora voluto/potuto provarlo sulla sua pelle.
Circa otto ore di vita virtuale mai così reale,
il perfetto equilibrio tra gioco,
seduta didattica e racconto, graziata da una delicatezza incredibile nel trattare il tema principale, quello delle malattie mentali, pur avvolgendolo in un sudario di violenza incontrollabile, talvolta scioccante. Uno di quei titoli che io definisco “da museo”, perché insegnano davvero qualcosa e lo fanno attraverso il medium più versatile, malleabile e coinvolgente,
miglior forma di espressione artistica e sociale nelle mani di chi sa usarlo e dosarlo.
Verdetto
9 / 10
L'allucinante bellezza.
Commento
Pro e Contro
✓ Senua è un'entità eccezionale
✓ La vetta del coinvolgimento emotivo
✓ Componente audiovisiva al servizio totale del gameplay
x Ossatura lineare, pur magistralmente mascherata
#LiveTheRebellion