Raccontare cos’è Hellblade in due parole è molto facile, in realtà: è semplicemente tutto quello che il mercato indie sarebbe dovuto diventare.
Chi vi scrive
non è un apologista del mercato indipendente. Crede che si tratti di un fenomeno a cui va riconosciuto il – grande – merito di aver spiegato “agli adulti” (quelli che fino a quel momento erano gli unici a creare videogiochi per professione) che non c’era spazio solo per qualche nome pesante o per chi avesse le spalle coperte. Il problema? È che dopo il big bang quel movimento si era cristallizzato troppo velocemente e aveva smesso di crescere, o meglio ancora di spingere,
accontentandosi di essere
l’alternativa per gli alternativi che vivono il mercato come una competizione tra chi ha le idee e chi ha i soldi. Poi per fortuna ci ha pensato
Ninja Theory, poi per fortuna ci ha pensato
Hellblade.
Versione testata: PlayStation 4
Divina Commedia
Stranianti. Dei tantissimi aggettivi che si potrebbero utilizzare per descrivere le ore di gioco che sommate costituiscono Hellblade – aggettivi che attraversano più o meno tutte le zone dello spettro emozionale – questo è probabilmente quello più indicato a fungere da biglietto da visita per il lavoro di Ninja Theory. Come nella migliore tradizione indie ogni singolo megabyte occupato su disco dalla produzione è a servizio del messaggio che vuole veicolare,
senza compromessi. Quando prendiamo il controller tra le mani siamo abituati a dire (e a pensare) di vestire i panni del protagonista di turno: in Hellblade più che diventare Senua, il giocatore ne penetra la psiche, ne respira le ansie e lentamente viene contaminato dalla sua pazzia.
In un certo senso si ha la sensazione di usare violenza su Senua, di entrare nella sua testa in modo così viscerale da percepire il peso di questo abuso.
Il merito – anche se la tentazione di definirla “colpa” è forte – è dell’atmosfera creata dagli sviluppatori, che mette in luce fin dalle prime battute le condizioni mentali della protagonista e
non fa assolutamente nulla per mettere a suo agio il giocatore. Tutt’altro, visto che specie se si fruisce dell’esperienza attraverso un paio di cuffie (elemento che tornerà più avanti, per ora dateci il beneficio del dubbio.
O almeno fidatevi della schermata iniziale del titolo) il feeling che viene restituito è permeato dell’ansia e della tensione che Senua vive dall’altra parte dello schermo, dei dubbi che la attanagliano cui viene insistentemente dato spazio tramite alcune voci, che vivono tanto nella testa della protagonista quanto in quella del giocatore. Voci che tra l’altro enfatizzano i loro disturbi di personalità andando spesso e volentieri a esprimere concetti opposti, riuscendo ad ottenere
un risultato finale che allo stesso modo è schizofrenico. Da una parte l’immedesimazione non è mai totale, perché è sempre chiaro che per Senua il giocatore altro non è che l’ennesima presenza all’interno della sua testa. Dall’altra parte però lo abbiamo già detto, il legame che si viene a creare tra chi gioca e quei poligoni che stanno dall’altra parte è – per quanto sui generis – viscerale, perché
mai come in Hellblade si viene proiettati all’interno della protagonista stessa, prima ancora che nel mondo di gioco.
Hellblade è una Divina Commedia ludica, dove Senua è Dante e Virgilio allo stesso tempo
Le vicende raccontate – su cui decidiamo di non sbottonarci, per non svilire il fascino monolitico dell’opera di Ninja Theory – sono altrettanto stranianti, sia perché ricostruite in modo frammentario che perché coltivano insistentemente il dubbio. Sapendo che Senua è disturbata e che ha una visione unica sul mondo (concetto ribadito a più riprese), possiamo fidarci di quello che succede a schermo?
Quanto c’è di vero e quanto invece è simbolico? Tanto più che sono gli stessi sviluppatori a ricorrere all’inganno, se si pensa al piccolo “caso” scoppiato attorno
alla presunta meccanica di permadeath presente in-game (e ben evidenziata a ridosso dell’inizio dell’esperienza) salvo poi scoprire che non è così.
Mossa sleale? Sicuramente. Ma con la stessa sicurezza possiamo dire che se l’obiettivo era aggiungere ansia all’ansia,
ha funzionato: poco importa se più fonti hanno confermato che Hellblade non elimina davvero il salvataggio di gioco, l’unico modo per sentirsi davvero al sicuro da questo punto di vista è stato fare un backup del salvataggio presente sulla console. Le allegorie e gli espedienti insomma, specie se si guarda alla mitologia norrena invocata a più riprese, non mancano e sono compagni di viaggio per tutte le otto ore circa richieste per arrivare al finale dell’esperienza.
Quasi una Divina Commedia, dal punto di vista concettuale, dove si gioca ora nei panni di Dante e ora in quelli di Virgilio, attraversando un viaggio finalizzato se non ad uscir a riveder le stelle quantomeno a ritrovare le tracce del bandolo, in quella matassa che è la psiche di Senua.
A servizio del viaggio
Senza compromessi, dicevamo. E ovviamente questo riguarda anche l’elemento ludico del titolo,
spogliato di tutti gli elementi espliciti cui si è abituati a livello di interfaccia – una sorta di barra della salute, in effetti, c’è, ma è alla portata solo dei giocatori più attenti – e
costruito attorno a pochi concetti essenziali (per non dire
quintessenziali). Hellblade alterna fondamentalmente due scenari tipo: esplorazione e combattimento.
La fase esplorativa, che mostra i primi limiti del titolo quando si impatta sulle barriere invisibili attorno alcuni ostacoli e alle limitate possibilità di Senua (spostarsi e interagire, senza nemmeno poter saltare), ripaga il giocatore facendo un uso intelligente delle rune della tradizione norrena per confezionare puzzle ed enigmi. In pratica, per aprire alcune porte è necessario riuscire a trovare nell’area circostanze degli elementi dello scenario che, inquadrati in un certo modo dagli occhi della mente di Senua vanno a formare le singole rune che corrispondono alla “combinazione” del cancello. Non mancano varianti sul tema in cui per riuscire nello scopo bisogna riconoscere o innescare alcune illusioni, compiere determinate azioni a monte o sfruttare qualche altra meccanica in particolare – una sezione in particolare, nell’oscurità quasi totale, richiede al giocatore di trovare la strada
sfruttando solo l’audio di gioco e qualche vibrazione del controller. Gli enigmi sono mediamente tutti ben congegnati, e realizzati in maniera tale che dopo le prime ore la ricerca delle potenziali “rune naturali” nell’area che si sta attraversando divenga
una specie di riflesso condizionato per il giocatore, che inizia man mano a comprendere con più chiarezza il linguaggio con cui il mondo di Senua parla. Ci è capitato più volte di riconoscere alcuni di questi segni pseudo-inconsciamente, scoprendo pochi passi dopo che effettivamente per proseguire era necessario utilizzare gli occhi speciali della protagonista per replicare la runa impressa sulla porta.
La fase di combattimento invece, per quanto anche in questo caso l’approccio sia minimalista, è
quasi del tutto priva di ombre: Senua avrà a disposizione anche un moveset limitato, ma è possibile concatenare virtualmente ciascuna delle singole azioni possibili e, con il giusto tempismo eseguire anche movimenti coreografici ma assolutamente efficaci e mortiferi. Hellblade da questo punto di vista non è DmC Devil May Cry, ma
la soddisfazione per un contrattacco messo a segno – magari sfruttando una delle voci nella testa di Senua che avvisa il giocatore che un nemico sta per colpire alle spalle – prorompe in modo copioso ed istantaneo,
ripagando di tutto l’impegno profuso in queste fasi all’arma bianca. E anche in questo
caso più si gioca, più si entra in sintonia con il “linguaggio” di Hellblade, riuscendo a leggere meglio i movimenti dei nemici e anche a intravederne i comportamenti tipici, a seconda della loro “tipologia” di appartenenza (ci sono infatti nemici diversi, accumunati solo dall’assenza di nomi ed etichette per classificarli).
Splendide le boss-fight, che portano all’estremo la necessità di capire il pattern dell’avversario e cogliere la reazione migliore da opporre e si concedono anche qualche acuto sperimentale nelle fasi più avanzate – anche in questo caso in una sezione abbiamo dovuto affidarci anche al sonoro, per capire meglio i movimenti del mostro che ci stava minacciando.
Indie Tripla-A
Hellblade è davvero un Indie Tripla-A, capace di mascolare il meglio dei due mondi
Già.
Il sonoro è uno degli elementi portanti della produzione, e non solo perché la sua realizzazione è curata e riesce perfettamente a fare da sottofondo emozionale quando è necessario e ad amalgamarsi ai rumori (sovra)naturali di Hel quando il focus è altrove. Abbiamo già portato qualche esempio di come Ninja Theory abbia messo anche il comparto audio a servizio del titolo, rendendolo uno degli elementi chiave di alcuni puzzle o di alcune battaglie e di conseguenza – se si vuole godere dell’esperienza al suo meglio, quantomeno –
chiedendo al giocatore di utilizzare un paio di cuffie, magari dotate di audio 3D. Hellblade si esprime anche così, attraverso quella che di fatto è la sua voce, veicolando una generosa parte del suo messaggio a questo modo. E naturalmente il doppiaggio, in uno scenario del genere, doveva per forza di cose tenere il passo:
fortunatamente è così, e sia le voci nella testa di Senua che i (pochi) personaggi secondari lasciano il segno sullo schermo anche con le loro corde vocali.
È il concetto che stava dietro all’idea di Hellblade, quello di
Indie Tripla A: realizzare qualcosa che potesse essere venduto a prezzo budget (si parla di 29.99€, che se non si fosse capito vi consigliamo di spendere senza pensarci troppo), ma che potesse giocarsela alla pari, dal punto di vista qualitativo, con una produzione maggiore.
Esperimento coraggioso, in una generazione che spesso e volentieri guarda prima ai contenuti e solo in un secondo momento a quello che tramettono.
E qualche sbavatura tecnica minore c’è, qualche texture saltuariamente viene caricata un po’ in ritardo e non si può nascondere qualche bug minore, ma sullo schermo il giocatore è testimone di un prodotto che
visivamente ha ben poco da invidiare ad un’opera “tradizionale”, con l’effetto di andare ad esaltare e capitalizzare al meglio delle sue possibilità l’impatto scenografico ed artistico di un’ambientazione che era già fortemente caratterizzata da tutto il resto.
È la tanto invocata chiave di volta di cui parlavamo in apertura, quello che il mercato indipendente doveva avere il coraggio di tentare – e in parte lo aveva anche fatto l’anno scorso, ma con troppe ambizioni – e che ci aspettiamo prenda in seria considerazione da questo momento in poi. Ninja Theory intanto ha dimostrato che sì, è possibile confezionare un “Indie Tripla A”.
Basta saperci fare quando si tratta di creare videogiochi.
Verdetto
9 / 10
L'unico rammarico è poter comprare solo una copia
Commento
Pro e Contro
✓ Atmosfera resa alla perfezione
✓ Tantissima qualità produttiva
✓ Buone idee e nessuna paura...
x ... Quindi non un titolo per tutti
x Qualche difetto minore
#LiveTheRebellion