Ti interessa preservare la storia del videogioco? Allora acquista QUI i libri di Bitmap Books.

Come si chiama quel gioco?

Negli ultimi anni 0 ci si imbatteva spesso in questa domanda sui forum. A volte eri proprio tu a porla, preso da una curiosità procedurale da soddisfare subito – è il rapporto che abbiamo da sempre con l’Internet, no? Reward immediata che poi priva di valore l’oggetto della tua ricerca.

Erano le ultime conseguenze del videogioco non ancora completamente industrializzato. Oggi i ragazzini si sparano gratis su Fortnite o vanno a lavorare nelle miniere di Roblox: roba accessibile, di massa e perfetta per essere veicolata da piattaforme sociali pensate a loro immagine e somiglianza. Noi non avevamo TikTok e anzi, col senno di poi un po’ ce l’abbiamo con Zuckerberg perché Facebook ha ucciso i forum e c’ha pure costretti a tornare ad utilizzare il nostro nome e cognome vero, non il nickname che c’eravamo scelti.

E soprattutto dovevamo fare i conti con un videogioco diverso

Costoso, anche più degli 80€ del prezzo di listino di oggi sotto tanti punti di vista, perché meno avvezzi a spenderli e meno economicamente indipendenti di quanto possiamo essere ora che ci intestiamo macchine, bollette, mutui.

Scarso, non nel senso che i giochini facevano schifo (posto che insomma eh), ma perché oggi è facile aprire uno shop qualunque e scaricare in una mezz’ora 100 giga di versione digitale o alle brutte c’hai Amazon, all’epoca invece dovevi capire in che negozio andare e sperare che avessero qualche copia di quello che volevi. Altrimenti finivi per accontentarti di Superman 64 perché sulla copertina c’era il Superman del cartone che andava in onda dentro Game Boat su Rete 4.

Tribale, perché appunto Internet non c’era o quando c’era non era il posto che è oggi, non bastava googlare il nome del gioco per trovare (oltre a un sacco di merda, ça va sans dire) essai, approfondimenti, podcast e stronzate che approfondiscono la dimensione culturale dell’oggetto ludico. E quindi nella pratica poteva succedere che nella tua cerchia – nella tua tribù – si decidesse arbitrariamente che DOOM in fondo era una ciofeca rispetto a Turok: Dinosaur Hunter. Cioè vuoi mettere? Ci sono i dinosauri!

In N64: A Visual Compendium c’è peraltro un’intervistona a Remington Scott, oggi auctoritas del motion capture e all’epoca sotto contratto con Acclaim e coinvolto prepotentemente nello sviluppo di Turok.

È proprio questo senso di tribalità che caratterizza questo videogioco pre-industriale, ancora non così succube del capitalismo e molto più simile all’artigianato. A metà della nona generazione di console quando riguardiamo alla quinta, in particolare quando riguardiamo a Nintendo 64, uno dei nomi che viene fuori con più insistenza è quello di Rare. I britannici capaci di inventare lo sparatutto in prima persona da controller con 007 Goldeneye, di sfidare in casa sua Super Mario 64 con Banjo-Kazooie, per quanto mi riguarda di batterlo quando si parla di kart con Diddy Kong Racing. Quasi nessuno si ricorda di Blast Corps.

Blast Corps era una roba strana. Non saprei manco in che genere inserirlo, in realtà. “Se tiri giù degli edifici sarà per forza divertente”. Il concept dietro il gioco è questo, un’idea che Chris Stamper (co-fondatore di Rare assieme al fratello Tim) si porta dietro da anni ma che riesce a trovare corpo solo in quella cartuccia del ‘97 su quella console dove in mancanza di tutti gli altri nomi che avevano carryato Nintendo al successo a Kyoto devono pescare per forza in occidente. E oh, oggi so che “essere divertente” non vuol dire nulla dal punto di vista critico e non conferisce valore a qualcosa più di quanto non lo faccia “essere blu”. Però Blast Corps era davvero divertente. I livelli erano una manciata, ma tanto sostanzialmente a me interessava giocare per ore e ore quelli dove potevi usare questo mecha giallo col jetpack che scassava gli edifici crollandogli addosso. Era Michael Bay: The Game prima ancora che Michael Bay facesse i soldi con la pala. Era un sandbox ignorante che anticipava a grandi linee il modo in cui avremmo giocato i Grand Theft Auto tridimensionali qualche anno dopo, sbattendocene assolutamente della trama e andando in giro a fare casino per il gusto di farlo. Solo che probabilmente mancando le parolacce e le puttane Blast Corps s’è fermato lì a casa mia invece di entrare in quelle di tutti.

Il 3D di Nintendo 64 slavazzato ha ancora oggi quel non so che cosa che affascina
Facile ricordarsi di F-Zero e Wipeout, probabilmente nei loro anni di grazia perché l’automotive tirava ancora una madonna e ci piaceva sognare questo futuro cyber-positivo di corse a zero-g e tecno-edonismo sfrenato. Quanti hanno giocato Extreme-G invece? Uscito l’anno prima di F-Zero X e di WipeOut 64, provava a buttare in mezzo anche stronzatine a la Mario Kart nella mischia, con turbi e bombe e roba del genere raccattabile lungo la pista. Aveva circa lo stesso frame-rate di Andreotti ospite da Paola Perego su Canale 5. Ma appunto, giocavi quello che capitava sotto mano e io alla fine F-Zero X l’ho scoperto per caso anni dopo a casa di un amico Nintendo64-munito anche lui, però lo stesso amico aveva anche la cartuccia del già citato Diddy Kong Racing e per un bel po’ non avrei avuto altro racing game al di fuori di quello.

Guardandomi indietro il motivo per cui gioco tanto indie oggi forse è questo. È effettivamente il segmento di mercato che va più vicino a quel flavor.

È ancora artigianato (anche se sempre meno, perché Devolver e Annapurna hanno sdoganato e adesso sono arrivate le big-corp pure lì). È ancora in una certa misura tribale, vive di passaparola più che di grandi investimenti per avere il trailerone mandato on-air durante i TGA o le metropolitane tappezzate di manifesti. Nella tribù di Gameromancer spesso e volentieri ritornano fuori nomi di cose che ok, sono sicuramente più note di Blast Corps, ma non hanno venduto necessariamente le milionate. Everhood qua in Italia lo si è discusso quasi solo noi, per esempio.

Everhood è una cattedrale nel deserto di questo ultimo periodo videoludico, costruita con secchiello e paletta. Non perdere altro tempo a leggere, apri quel cazzo di eShop.

Ma se proprio vuoi leggere, Sacro Blog di Gameromancer ™ → o qui su Ilovevg
Non è chiaramente la stessa cosa e non può esserlo. Forse smetterà pure di assomigliarglici, a breve, appunto perché ormai l’indie sta diventando sempre più Tripla-I e tutto quello che ci abbiamo visto all’alba del movimento grazie ai World of Goo e ai Super Meat Boy finirà relegato su itch.io. Sempre finché poi anche lì non arriva la Devolver di turno a notare quanto quel Sacrifices Must Be Done di un certo Daniel Mullins sia una ficata e dandogli due lire ecco che abbiamo Inscryption.

Però voglio restare ottimista. Don’t You (Ludum) Dare go hollow.

Questo contributo è stato originariamente pubblicato come parte de La Voce della Ribellione, la newsletter di Gameromancer.

#LiveTheRebellion