Si chiamava Wander, “colui che vaga“, il protagonista di quel videogioco che ci ha insegnato la meraviglia del viaggio e della scoperta. Un’opera che nel lontano 2005 lavorava per sottrazione e mostrava quanto potesse essere stimolante vagare per una terra vasta, vuota e tuttavia densa di luoghi da scoprire, di storie intrinseche da ascoltare. Shadow of the Colossus riprendeva da Ico l’idea di narrare in silenzio, con gli strumenti del giocare, e faceva dell’esplorazione libera e della meraviglia uno dei suoi messaggi fondamentali. Tutta la poetica di Fumito Ueda, poi incarnata nuovamente nel divisivo (e meraviglioso) The Last Guardian, ruota attorno a un design sottrattivo. Ciò rende le sue opere non adatte a tutti, ma dall’enorme potere comunicativo.
Rimuovere il superfluo, a costo di alienare e infastidire i più, per riuscire a comunicare con pochi individui, ma con una potenza raramente eguagliata: in breve, Fumito Ueda.Claudio Cugliandro, Stay Nerd
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Qualche anno dopo, un altro game designer giapponese ha voluto raccontare un mondo vasto e, di nuovo, vuoto per lo più; di nuovo usando il viaggio come strumento al contempo ludico e narrativo. Anche in questo caso, Death Stranding si è rivelato uno dei titoli più coraggiosi, stimolanti e importanti dell’ultima generazione. Il cammino, l’esplorazione e la scoperta ancora a fare da motore a un racconto interattivo, a un’esperienza capace di entrare sotto pelle.
Non sono i filmati, è il giocare a raccontare una storia.
Quel lento e faticoso arrancare, inerpicarsi verso il promontorio tra il fango, le rocce e le creature arenate pronte a trascinarci nell’al di là chirale, non è solo il mezzo per arrivare al meraviglioso scorcio che si apre sulla destinazione: è il messaggio stesso. Death Stranding non racconta la storia di Sam e di Cliff, ma quella di un’umanità in rovina, che si affida a te giocatore, a te corriere, per sopravvivere come specie. Non sono i filmati, è il giocare a raccontare una storia.
Trovandomi a giocare Sable ho percepito di nuovo la stessa potenza espressiva. Sotto l’estetica di Moebius e i limiti tecnici della produzione indipendente, ho sentito lo stesso senso di libertà, di voglia di scoprire, di partire verso un’orizzonte misterioso e lasciarsi guidare dalla curiosità. Scorgere un dettaglio, viaggiare attirati da un promontorio o dal profilo di una torre abbandonata in lontananza. La stessa cura per l’architettura, così densa di significati, di lore, la stessa narrazione silenziosa che collega direttamente Ico a Dark Souls. Sguinzagliato in un mondo desertico, tribale e nomade, carico di tradizioni e messaggi profondi, il giocatore diventa Sable stessa, giovane in viaggio per compiere un rito di passaggio per (ri)scoprire sé stessa.
Un po’ Wander, un po’ Link
Eppure c’è anche tanto Breath of the Wild nell’opera prima dei due sviluppatori londinesi di Shedworks. Nella libertà di raggiungere quasi ogni luogo visibile, di scalare tutte le superfici presenti nel gioco. In realtà, l’accostamento tra i due titoli ha senso anche in relazione ai ritmi dell’esperienza ludica. Il modo in cui Sable insegue l’orizzonte, la struttura del mondo di gioco, il level design, sono tutti elementi che si ispirano all’ultimo Zelda. E anche senza il combat system del gioco Nintendo, senza quella cura maniacale per i dettagli, il piccolo titolo indie è riuscito a catturarmi nella sua magia, nella sua febbre esplorativa.
Le mie ore di gioco nel deserto sono state freneticamente rilassate. In preda alla costante voglia di scoprire il prossimo anfratto, la prossima costruzione suggestivamente aliena, volta a celare un tesoro, un personaggio con cui parlare o semplicemente un panorama meraviglioso. Non ha influito la semplicità della formula ludica sulla mia voglia di scoprire tutto quello che il mondo sci-fi di Sable aveva da raccontarmi. Il gameplay di Sable è sicuramente asciutto, qualcuno potrebbe ragionevolmente definirlo povero, specialmente chi proviene da open world densissimi di attività e varietà. Eppure trovo che l’approccio minimale, legato alla scelta di raccontare il viaggio e il deserto tribale, sia perfettamente a servizio di una narrazione interattiva, di cui ricorderò più i singoli momenti casuali che la storia canonica.
Dopotutto si tratta del lavoro di due persone, un piccolo studio indipendente nato pochi anni fa. Comunque capaci con la loro opera di suscitarmi una genuina voglia di esplorare, oltre a risvegliarmi i ricordi dei chilometri percorsi in sella ad Agro. E sebbene il colpo d’occhio non raggiunga le vette di Journey, altro titolo a cui chiaramente si strizza l’occhio, considerando la struttura di Sable il risultato è avvolgente, in più d’un’occasione sbalorditivo per le suggestioni che riesce a creare.
Sable è senza dubbio afflitto da svariati problemi tecnici, soprattutto su Xbox, e avrebbe giovato di un periodo di polishing ulteriore. Ed è altrettanto vero che il minimalismo risulta alla lunga un po’ eccessivo. Devo ammettere che non mi sarebbero affatto dispiaciute delle componenti ludiche in più, o una maggiore varietà delle attività da svolgere. Eppure, l’opera di Shedworks a mio avviso è riuscita perfettamente a creare un universo che racconta di deserti e tribù nomadi. Un mondo intrigante, capace di trascinarmi al suo interno fino a perdermi tra le dune. E ultimamente era anche qualcosa di inconsciamente desiderato, a seguito di certe visioni cinematografiche.
Un mondo intrigante, capace di trascinarmi al suo interno fino a perdermi tra le dune
Anche il lavoro di scrittura dell’ambientazione, quello che si può scoprire esplorando, dialogando e leggendo, è lodevole. Nulla di rivoluzionario, fortemente derivativo da altre opere sci-fi, ma la cosiddetta ‘lore‘ è curata abbastanza da instillare nel giocatore un’ulteriore livello di curiosità.
Il difetto di design più evidente a mio avviso risiede nelle quest, che si confondono tra principali e secondarie aggiungendo poco al racconto interattivo. Buona parte delle missioni servono solo a invogliare ad andare in posti dove comunque si finisce se si segue il proprio spirito esplorativo. Cosa che personalmente ho trovato a tratti fastidiosa. Più di una volta sono finito a parlare con un NPC che voleva spedirmi in un posto dove ero già stato. Rendermi conto che quel luogo trovato curiosando in giro era in realtà legato a una missione secondaria, mi ha tolto quella soddisfazione della scoperta personale.
L’idea alla base di Sable è quella di lasciare che il giocatore trovi la propria strada, il proprio posto nel mondo virtuale. Per farlo, il gioco ci guida nel ritrovamento delle maschere, alla base di questa società. Ogni maschera rappresenta un ruolo sociale, un mestiere, un’occupazione. Per trovarle bisogna svolgere compiti legati in qualche modo a quel ruolo, e alla fine del nostro viaggio potremo scegliere una di esse, scegliendo di conseguenza il ruolo che più ci si addice.
Da un lato è bellissimo che le maschere si trovino in base allo stile di gioco che si adotta, in certi casi. Per cui se si tende a recuperare rottami si viene ricompensati con la maschera associata al rottamatore, mentre se ci concentriamo sulla customizzazione della moto si otterrà facilmente la maschera da meccanico. Tuttavia, questa dinamica viene sfruttata troppo poco e in modo troppo scialbo. Queste maschere non influiscono mai davvero sul gameplay, e alla fine conta effettivamente poco a quali compiti ci si è dedicati maggiormente.
Sable è un gioco imperfetto, che racconta perfettamente un viaggio di formazione. La scoperta del mondo è metaforicamente funzionale alla scoperta di sé. Il confronto con l’esterno è necessario ad ottenere la conoscenza per scegliere chi diventare. I glider, come Sable, sono dei giovani spediti a farsi le ossa in giro per il deserto, pronti a svolgere compiti per i personaggi più disparati. Una gavetta slegata dalla nostra società capitalistica, che trasforma un adolescente in un adulto, in grado di scegliere il suo posto nel mondo. La vita reale non avrà i cali di frame rate, ma è imperfetta lo stesso, e va bene così. Vale anche per Sable, che mi ha lasciato addosso la sensazione dei granelli di sabbia e il ricordo di una compassata esplorazione di lande visionarie, in preda a una curiosità compulsiva per ciò che sta oltre l’orizzonte.
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