Abbiamo bisogno di storie nuove, e spesso le troviamo rimodellando le più antiche.

Dall’uscita del trailer di God of War: Ragnarok all’ultimo State of Play sono state molte le critiche e le tematiche che hanno interessato il web. Di fronte all’estetica di Thor, e soprattutto di Angrboda, si sono innalzati degli scudi ostili in difesa di una fedeltà mitologico-letteraria che ha riempito gli spazi di discussione. Thor è grasso, non è credibile sia potente. Angrboda è nera, ed è un insulto alla mitologia norrena e alla storia delle popolazioni vichinghe. Hanno stravolto una delle più grandi mitologie in onore di un’ideale forzato di inclusività, inserendo elementi incoerenti, non fedeli. Ecco, queste tre frasi sono un po’ il riassunto delle critiche ricevute da God of War: Ragnarok nell’ultima settimana.

Potrei soffermarmi sul fatto che il fisico di Thor in realtà sia molto coerente con un tipo di forza che necessità di essere esplosiva e immediata, e che non sia una corporatura rara tra i più grandi atleti di powerlifting e weightlifting. Così come potrei sottolineare che Angrboda è nera perché potrebbe rivelarsi un collegamento con un’altra mitologia, ovvero quella egizia. Ma a riguardo è già stato scritto molto.

A interessarmi è quel “non sono fedeli”. Parto da un assunto: nessuna trasposizione può essere fedele all’originale, anche se ricostruita parola per parola. Pur sembrando un controsenso, anche una copia “identica” ha elementi che differiscono dall’originale, e questo discorso può applicarsi a ogni medium artistico, dalla letteratura al teatro, così come poi anche al videogioco. Ma ipotizzando che la totale fedeltà sia possibile, è veramente un valore? È dal perpetuarsi di trasposizioni identiche all’originale, immutate, cristallizzate, che la cultura si arricchisce e che la trasposizione ottiene realmente validità?

Nessuna trasposizione può essere fedele all’originale, anche se ricostruita parola per parola

Un bisogno umano

L’essere umano ha bisogno di creare storie. Ne ha bisogno non solo per dare una spiegazione a ciò che lo circonda, ma anche per sopravvivere. Lo studioso di letteratura evolutiva Jonathan Gottschall scrive nel suo saggio L’istinto di narrare che «se l’attitudine alla narrazione fosse solo un piacevole fronzolo, l’evoluzione l’avrebbe eliminata già da parecchio, in quanto uno spreco di energia. Il fatto che le storie siano un universale umano costituisce una forte evidenza di una finalità biologica». La finzione narrativa, espressa tramite un qualunque mezzo – disegni, oralità, scrittura etc… – è una tecnologia che simula i dilemmi della vita umana.

La narrazione ci trasporta in un mondo “altro”, permettendoci di fare esperienze che altrimenti non potremmo compiere, oppure di allenarci a riconoscere e affrontare situazioni che potrebbero realmente capitarci. Per Gottschall siamo dunque attratti dalla finzione narrativa perché la nostra realtà è tremendamente complessa, e tramite le storie la nostra mente fa pratica, portando a migliorarci come specie. E, si spera, anche come individui.

Ecco che nascono i miti, che si formano gli archetipi, che si diffondono favole e fiabe popolari. Specchi della società che li ha creati, e funzionali ad essa. Ma sono specchi che non rimangono immutati. Mano a mano che una storia viene appresa da essere umano a essere umano, mano a mano che viaggia nel tempo, nello spazio e che magari cambia forma di trasmissione – passando per esempio dall’orale allo scritto – muta. La storia assorbe elementi, si plasma, e porta con sé caratteristiche differenti appartenenti a quelle voci e a quei luoghi nuovi.

Il costante cambiamento

Cambiare una storia vuol dire cambiare il punto di vista da una prospettiva sia individuale che sociale. Emergono i problemi, le paure, le tematiche che una società reputa importanti in quel determinato periodo, o gli aspetti rassicuranti di cui ha bisogno.

È un esempio abbastanza classico, ma basta guardare i film Disney. Walt Disney ha preso storie appartenenti a tradizioni popolari che giravano in Europa fin prima del 1600, li ha epurati da qualunque immagine cruenta, che sarebbe risultata disturbante per il pubblico al quale voleva rivolgersi, e ha esaltato gli archetipi alla base, aggiungendo poi colori e canzoni rassicuranti.

Questo non vuol dire che le storie di Disney non abbiano valore. Hanno valore contestualizzate al periodo, al luogo, al mezzo di trasmissione, al pubblico e, soprattutto, allə nuovə autorə che li hanno riscritti e riadattati. Ognuno di questi elementi ha contribuito a creare un nuovo canzoniere di storie, facendosi portavoce di nuove morali e insegnamenti.

È ciò che è successo anche nel 1962, quando autori del calibro di Jack Kirby, Stan Lee e Larry Lieber presero l’immaginario della divinità norrena di Thor e lo inserirono all’interno del pantheon dei supereroi Marvel. Il dio acquista di colpo un aspetto in linea con l’immaginario dell’epoca di uomo sano, in forma, un modello atletico, misto a un paio di elementi stereotipati legati all’aspetto delle popolazioni scandinave. Così come cambia anche il suo comportamento etico e morale, abbandonando la brutalità e l’ira narrate nell’Edda, per avvicinarsi alla figura di un dio buono, incorruttibile, più in linea con i valori supereroistici.

Il mito di Kratos

I miti sono storie. I miti sono racconti creati, tramandati, modificati, e interpretati a seconda della società che li legge, e dei valori che questa matura. Allegorie, metafore, oscurità nella scrittura, incoerenze. Tutto è frutto di una trascrizione di multiple fonti orali, di contaminazioni manoscritte nel corso dei secoli, di errori, di varianti, di aggiunte e di cancellazioni. E ora siamo qui, con un nuovo medium capace di unire trasmissione scritta, iconografica, orale, teatrale e filmica. Quanto può incidere tutto ciò su una storia che già sta mutando da secoli?

I primi God of War compivano già uno stravolgimento enorme. La religione dell’antica Grecia non spronava i fedeli a imitare gli dèi. Mentre nella religione cristiana vi è il concetto di imitatio christi, che spinge l’uomo a comportarsi quanto più possibile come Dio, in modo da avvicinarsi alla sua condizione di ineffabile perfezione, nell’antica Grecia le divinità punivano i tentativi umani – anche involontari, come l’essere esteticamente belli – di avvicinarsi al divino. Kratos diviene potente, troppo per un essere umano, e di conseguenza viene punito, anche se lo è diventato per aiuto divino. Ma la storia non termina con la punizione della hybris. Kratos è spinto dal puro desiderio di vendetta, che lo travolge talmente tanto da portarlo a diventare effettivamente un dio. Una imitatio dei basata e compiuta sull’odio e il risentimento.

God of War: Ragnarok

Di fronte alle critiche delle ultime settimane, il narrative director di God of war: Ragnarok Matt Sophos ha risposto tramite dei tweet. Al centro delle sue affermazioni c’è un concetto chiave: questa è la nostra versione della mitologia. Kratos è un uomo divenuto divinità, ma è e rimane un essere umano e, in quanto tale, è in grado di cambiare, maturare. Non è un’entità cristallizzata come lo erano gli dèi dell’Olimpo. E così si allontana, scappa da sé e da ciò che le sue azioni hanno creato. Fallendo.

Il suo arrivo ai confini del mondo non passa in silenzio, e sono lə stessə autorə a dircelo tramite il personaggio di Mimir. Kratos è un uomo fattosi dio, e in quanto tale porta mutamenti.

Abbiamo una nuova storia tra le mani, non tramandata oralmente o su fogli di pelle lavorata con qualche miniatura, ma tramite l’arte videoludica. E questa nuova storia è creata da scrittorə che hanno coscienza della complessità del mondo che lə circonda, e di come i miti e le tradizioni possano intrecciarsi. Autorə che hanno fatto ciò che l’essere umano sa fare meglio, ovvero prendere i miti, le storie e gli archetipi che li compongono, e adattarli alla contemporaneità così da veicolare messaggi, paure, speranze e visioni proprie del nostro tempo.

E così cambia anche la rappresentazione

Sì, perché se si vuole rappresentare la complessità del mondo in luce anche della sensibilità che l’essere umano sta maturando, non è più possibile scrivere storie usando come modelli quelli che hanno dominato fino ad ora. Siamo complessi, vari, sia nell’aspetto che nella mente. E siamo validi tuttə nello stesso modo. Ecco perché un dio non secondario con un fisico dai più considerato non conforme ai miei occhi è importante, non solo perché in effetti è accurato, ma perché c’è bisogno di rappresentazioni varie e non idealizzate. Così come anche il fatto che la gigante il cui ruolo è centrale per gli eventi che interessano la circolarità dell’esistenza sia nera.

I vichinghi immaginavano le loro divinità osservando loro stessə; non vedo perché noi non potremmo fare altrettanto.

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