Six Days in Fallujah non solo è propaganda, ma è pura esaltazione dell’ideologia del soldato.
Novembre-dicembre 2004. Squadre armate statunitensi, britanniche e irachene assaltano la città di Fallujah, in Iraq. L’offensiva è guidata dall’esercito statunitense e autorizzata dal governo provvisorio iracheno, nominato dagli stessi Stati Uniti. Questa operazione – denominata Phantom Fury – è la seconda incursione nella città (la prima avviene nell’aprile dello stesso anno), e sarà ricordata come la più sanguinosa dell’intera guerra in Iraq combattuta dagli Stati Uniti.
Prima dello scontro, circa il 70% degli abitanti di Fallujah abbandona la città, ma molti decidono di rimanere nelle loro case. La paura di venire separati, il non sapere dove poter andare, o il semplice desiderio di non abbandonare ciò che hanno costruito, li spinge a restare. Circa 800 civili vengono assassinati.
Highwire Games ha deciso di riprendere in mano Six Days in Fallujah, un videogame annunciato oltre una decina d’anni fa da Konami – e abbandonato dopo poco – che mira a raccontare gli eventi di quei due mesi. Victura, il publisher che si occupa di presentare il gioco, lo definisce un documentario giocabile.
Tuttavia, dal trailer, uscito poche settimane fa, l’unica voce che emerge è quella dell’esercito statunitense. Gli iracheni scompaiono. In circa 6 minuti di video e gameplay, prendono parola alcuni soldati statunitensi. Alla fine, in circa 30 secondi, parlano anche due civili iracheni sopravvissuti. Non dicono nulla. Spiegano solo perché le loro famiglie si trovavano ancora in Fallujah. Il loro volto è oscurato.
Individui procedurali
Durante tutto il trailer di Six Days in Fallujah, i soldati statunitensi insistono sullo stesso particolare: non sai mai cosa troverai oltre la porta. Girando per le vie di Fallujah, i soldati infatti facevano irruzione nelle abitazioni, ignari di cosa e di chi avrebbero trovato. Quindi, arma ben imbracciata, calcio alla porta e se ti parte un colpo (o una raffica) contro dei civili, pazienza. Capita.
The person who goes in first is never wrong, they have the most fear.Sergente Jason Kyle
La persona che entra per primo non è mai nel torto, perché ha di più da temere.Sergente Jason Kyle
Il sergente Jason Kyle è uno degli uomini dell’esercito statunitense che prende la parola. Descrive la sensazione di angoscia, il timore di morire, il disorientamento. Si dimentica però che lui faceva parte di chi irrompeva nelle abitazioni completamente armato. Chi in quelle case ci aveva costruito una vita e cercava di nascondersi, non aveva paura? A lui non importa. Non rientrano nell’equazione. Non hanno importanza.
Per far sì che anche il giocatore provi questo stato di disorientamento e di angoscia, in Six Days in Fallujah l’intera città e l’interno delle abitazioni sono procedurali. A ogni nuova partita, una Fallujah diversa. Il problema è che anche gli iracheni sono generati proceduralmente. Miliziani o civili che siano, non sono personaggi costruiti. Non hanno un volto, un nome, una storia. In nessun caso il giocatore verrà messo di fronte al dubbio se ciò che sta facendo è giusto o meno. Sono bambole che gridano frasi preimpostate. Puri bersagli, ma con gambe e braccia. Il gioco elimina un’intera versione della vicenda.Questa è pura idolatria del soldato, e Six Days in Fallujah è pura propaganda.Questa è censura. Togliere la voce e l’identità a qualcuno, per poi gridare alla fedeltà storica.
Il silenzio forzato degli iracheni non è l’unico strumento di omissione che sembra presente. Durante la seconda battaglia di Fallujah, l’esercito statunitense ha fatto largo uso del fosforo bianco come arma chimica. All’interno del trailer questo però non appare. La risposta degli sviluppatori è stata “non pensiamo sia necessario ritrarre atrocità”. Inserire l’utilizzo come arma del fosforo bianco – mostrando così i crimini di guerra statunitensi – è dunque un forzare i giocatori a commettere atrocità. Entrare armati e sparare ai civili senza porsi domande sulle proprie azioni, invece, no.
Mai come negli ultimi anni, i videogiochi stanno dimostrando di poter essere veicolo di ideologie, correnti politiche, di poter contribuire a cambiamenti, e di sostenere rivoluzioni. Six Days in Fallujah è semplicemente un altro testimone di ciò. Negare che sia propaganda è assurdo, così come è veramente difficile vederlo come un docu-game. O, almeno, vederlo come un documentario giocabile obiettivo, e portatore di analisi storiche affidabili. Puntare al boicottaggio, come ha proposto il Council on American-Islamic Relations, non eviterà che altri giochi vengano creati come mezzi di propaganda e di intolleranza. Anzi… Se siamo convinti che i videogiochi siano più che semplice intrattenimento, allora dobbiamo anche osservarli consci dei messaggi e dei significati che veicolano, e delle intenzioni di chi li ha creati.
Giocate Six Days in Fallujah, contestualizzatelo, e fate ricerche su cosa è stata veramente la battaglia di Fallujah.
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