Come quel disco Come quel disco Come quel disco Come quel disco

Di Brian Wilson Di Brian Wilson Di Brian Wilson Di Brian Wilson

La sua grandezza, l’incompiutezza

Non avrebbero dovuto pubblicarlo mai Non avrebbero dovuto pubblicarlo mai

Non avrebbero dovuto pubblicare SMiLE

Caparezza, Canzone a metà

Sei tu un dio, Hideo Kojima? Un giapponese di mezza età che si diverte a fare scherzi, a illudere e deludere noi comuni mortali? Una parte di me continua a crederlo, dopo The Phantom Pain. Una parte di me non può accettare, non può accettarlo. Un gioco incentrato sul concetto di arto fantasma, che esce privo di un pezzo e non pago trasforma il suo creatore stesso in un arto fantastma – rendendoci orfani per sempre della saga che c’ha svezzato? È un esperimento sociale. Dopotutto dai, The Phantom Pain è stato annunciato come il primo titolo dei Moby Dick Studio di Joakim Mogren. Studio fittizio, capo fittizio. Deve essere fittizio anche il gioco, per forza.

A cinque anni da The Phantom Pain l'arto fantasma fa ancora male. E lo farà per sempre, perché Metal Gear Solid V è una condanna che si compie nell'incompiutezza

È propriocezione applicata ai videogiochi. Siamo perfettamente consci del nostro corpo anche senza ricorrere alla vista. Lo percepiamo continuamente, sappiamo in che posizione è, quanto sono contratti gli addominali. Allo stesso modo riusciamo a percepire The Phantom Pain anche se non lo abbiamo mai giocato davvero. Quello che è arrivato sugli scaffali il primo settembre del 2015 è un prodotto incompleto, orfano di un atto 3 sostituito alla buona con una protesi di missioni da rigiocare e dimesso in fretta e furia. È quanto di più simile i videogiochi abbiano mai avuto alla Sagrada Família.

Gaudì inizia i lavori nel 1882 e li continua fino alla sua morte. Travolto da un tram nell’indifferenza generale, nessuno a soccorrerlo o a riconoscerlo. Hideo inizia i lavori sul quinto capitolo della sua saga 130 anni dopo. E li continuerà fino alla sua morte in Konami, travolto dal suono di una pallina di ferro che batte sulla plastica. Assocerò per sempre il rumore dei pachinko alla morte, forse proprio per questo. Anche la fine di Hideo arriva nell’indifferenza di una Game Critic colpevolmente incapace di far giornalismo d’inchiesta, lasciando l’onere a testate di Finanza come Nikkei.
Eppure nonostante tutto riusciamo a percepire The Phantom Pain, il vero The Phantom Pain, attraverso quello che manca. La propriocezione che diventa sindrome dell’arto fantasma, come in un qualunque testo di medicina.

Razionalmente lo so, lo so che non è l'ultima follia di Hideo Kojima. Ma al diavolo, perché dobbiamo essere sempre così razionali?

Who knows? Not me
I never lost control
You’re face to face with the man who sold the world

David Bowie, The Man Who Sold The World
Hideo Kojima è Jim Moriarty e noi siamo Sherlock. Abbiamo bisogno di credere che sia in grado di rendere possibile l’impossibile, che abbia davvero la capacità di hackerare qualunque sistema con due semplici linee di codice. È per questo che a volte mi illudo che The Phantom Pain sia volutamente incompiuto. Lasciato al grezzo per farci percepire la bellezza oltre il grezzume, arto fantasma in un mercato che ci ha abituato alle protesi digitali.

Link È come un collegamento ipertestuale. Sto dicendo qualcosa che è stato già detto, quindi non mi ripeto, quindi ti lascio qualcosa per arricchirti. Poi sta a te cliccare o no.
Perché è inevitabile, The Phantom Pain ti entra dentro. Chiamami Ismaele, ci dice l’uomo bendato. Lo dice dopo una sezione in cui abbiamo scelto il nostro personaggio, e anche se Big Boss non s’è ancora sottoposto all’operazione plastica per assumere quelle fattezze è chiaro che Ismaele parla a noi. Parla ad Achab, un protagonista ossessionato dalla sua balena bianca. Arti fantasma. Siamo abituati ad un videogioco che al massimo prende in prestito da altri media. The Phantom Pain invece spesso e volentieri è volutamente mutilato. Per capire l’inizio di The Phantom Pain è fondamentale aver letto Moby Dick. Per capirne la fine, beh, bisogna giocare con The Man Who Sold The World nelle orecchie. Ancora una volta percepisci che c’è qualcosa che non c’è, sei istigato ad andare a fondo. A leggere e ascoltare e scoprire altri artisti, altri contenitori per la stessa conoscenza.

Non sono citazioni, richiami, camei. Sono dettagli di quel mondo che vengono raccontati con note a margine. Non è che c’è ma non si vede, perché non c’è. Ma si sente. È un non detto evidente, è parlare con qualcuno e capire che c’è di più sotto le parole. A volte c’è di più anche sotto le meccaniche di gioco, quando The Phantom Pain dà un assaggio del Kojima che verrà. Qual è il brodo primordiale del videogioco? Sembra una domanda fuori luogo, ma non lo è. È l’Arcade, quel modo di intendere l’intrattenimento in Sala Giochi dove l’Unico Vero Dio era il punteggio e veniva usato per lasciare la propria firma sulla classifica. Mostrava le prime dieci voci, come dieci sono i Comandamenti.

Luci Guida, Anche nella Morte prende questo Vecchio Testamento e lo usa per raccontare usando il linguaggio dei videogiochi

È uno dei momenti più maturi che il medium si sia concesso in questa generazione. È allo stesso livello della boss fight con Psycho Mantis, forse addirittura un po’ più in là. Non se ne parla mai in questi termini, forse perché fa più rumore quello che manca. Forse perché quello che manca fa rumore proprio grazie a quello che c’è, proprio grazie a Luci Guida, Anche nella Morte. Sappiamo di Eli e del Signore delle Mosche, del corno che preme sul nervo ottico di Venom Snake. Sappiamo senza aver visto, sentiamo senza che quelle informazioni siano incise su disco. Non ci sono, nella memoria delle nostre console. Nelle nostre sì. È la potenza dell’incompiutezza di The Phantom Pain che ti lascia in sospeso, come questo articolo

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