Come quel disco Come quel disco Come quel disco Come quel discoDi Brian Wilson Di Brian Wilson Di Brian Wilson Di Brian WilsonLa sua grandezza, l’incompiutezzaNon avrebbero dovuto pubblicarlo mai Non avrebbero dovuto pubblicarlo maiNon avrebbero dovuto pubblicare SMiLECaparezza, Canzone a metà
Sei tu un dio, Hideo Kojima? Un giapponese di mezza età che si diverte a fare scherzi, a illudere e deludere noi comuni mortali? Una parte di me continua a crederlo, dopo The Phantom Pain. Una parte di me non può accettare, non può accettarlo. Un gioco incentrato sul concetto di arto fantasma, che esce privo di un pezzo e non pago trasforma il suo creatore stesso in un arto fantastma – rendendoci orfani per sempre della saga che c’ha svezzato? È un esperimento sociale. Dopotutto dai, The Phantom Pain è stato annunciato come il primo titolo dei Moby Dick Studio di Joakim Mogren. Studio fittizio, capo fittizio. Deve essere fittizio anche il gioco, per forza.
A cinque anni da The Phantom Pain l'arto fantasma fa ancora male. E lo farà per sempre, perché Metal Gear Solid V è una condanna che si compie nell'incompiutezza
Razionalmente lo so, lo so che non è l'ultima follia di Hideo Kojima. Ma al diavolo, perché dobbiamo essere sempre così razionali?
Who knows? Not meHideo Kojima è Jim Moriarty e noi siamo Sherlock. Abbiamo bisogno di credere che sia in grado di rendere possibile l’impossibile, che abbia davvero la capacità di hackerare qualunque sistema con due semplici linee di codice. È per questo che a volte mi illudo che The Phantom Pain sia volutamente incompiuto. Lasciato al grezzo per farci percepire la bellezza oltre il grezzume, arto fantasma in un mercato che ci ha abituato alle protesi digitali. Perché è inevitabile, The Phantom Pain ti entra dentro. Chiamami Ismaele, ci dice l’uomo bendato. Lo dice dopo una sezione in cui abbiamo scelto il nostro personaggio, e anche se Big Boss non s’è ancora sottoposto all’operazione plastica per assumere quelle fattezze è chiaro che Ismaele parla a noi. Parla ad Achab, un protagonista ossessionato dalla sua balena bianca. Arti fantasma. Siamo abituati ad un videogioco che al massimo prende in prestito da altri media. The Phantom Pain invece spesso e volentieri è volutamente mutilato. Per capire l’inizio di The Phantom Pain è fondamentale aver letto Moby Dick. Per capirne la fine, beh, bisogna giocare con The Man Who Sold The World nelle orecchie. Ancora una volta percepisci che c’è qualcosa che non c’è, sei istigato ad andare a fondo. A leggere e ascoltare e scoprire altri artisti, altri contenitori per la stessa conoscenza. Non sono citazioni, richiami, camei. Sono dettagli di quel mondo che vengono raccontati con note a margine. Non è che c’è ma non si vede, perché non c’è. Ma si sente. È un non detto evidente, è parlare con qualcuno e capire che c’è di più sotto le parole. A volte c’è di più anche sotto le meccaniche di gioco, quando The Phantom Pain dà un assaggio del Kojima che verrà. Qual è il brodo primordiale del videogioco? Sembra una domanda fuori luogo, ma non lo è. È l’Arcade, quel modo di intendere l’intrattenimento in Sala Giochi dove l’Unico Vero Dio era il punteggio e veniva usato per lasciare la propria firma sulla classifica. Mostrava le prime dieci voci, come dieci sono i Comandamenti.
I never lost control
You’re face to face with the man who sold the worldDavid Bowie, The Man Who Sold The World
Luci Guida, Anche nella Morte prende questo Vecchio Testamento e lo usa per raccontare usando il linguaggio dei videogiochi
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