Kazuo Umezu è una figura importantissima nella storia del Manga. Umezu è universalmente riconosciuto, al fianco di Hideshi Hino e Suehiro Maruo, come uno dei padri fondatori del manga horror. Da Cat Eyed Boy a Fourteen, passando per il suo capolavoro Aula alla Deriva, Umezu ha flirtato con l’orrore senza mai abbandonare la sua indole eclettica. Io sono Shingo non fa eccezione e, anzi, è prima di tutto un’opera di fantascienza che si interroga su uno dei temi più affascinanti di sempre, ovvero quello dell’autocoscienza delle macchine. Il tutto è calato in un’atmosfera lugubre, che dona all’opera un feeling unico e inquietante, ma che non sfocia mai davvero nell’horror puro.

Una delle particolarità del lavoro di Umezu è che l’autore sceglie quasi sempre di adottare il punto di vista di protagonisti bambini. Il tema dell’infanzia è fortissimo anche in Io Sono Shingo, perché ad essere centrali sono proprio la purezza e l’ingenuità dei suoi protagonisti, vero motore della storia. Io Sono Shingo è arrivato in Italia in sette volumi grazie a Star Comics, che ha creato un testata – la Umezz Collection – interamente dedicata all’autore, e che si prefigge l’obiettivo di far conoscere le opere del maestro anche al pubblico italiano.

Una storia d’amore spettrale

Demografica Io Sono Shingo è un seinen, pubblicato originariamente da Shogakukan sulla rivista Big Comic Spirits

Io sono Shingo è sì una serie di fantascienza a tinte horror, ma la storia si origina e gira attorno alla storia d’amore tra Satoru e Marin. I due si conoscono durante una gita scolastica alla fabbrica dove lavora il padre di Satoru, da poco dotata di un robot messo alla catena di montaggio. Il robot altro non è che un braccio meccanico colegato ad un computer dotato di una rudimentale forma di Intelligenza artificiale. I due, rimasti affascinati dal robot, vanno a trovarlo quotidianamente in fabbrica come se fosse un compagno di giochi. Queste fughe amorose vedono Satoru e Marin interfacciarsi sempre più di frequente con il computer, in cui inseriscono i propri dati per farsi riconoscere dall’IA.

Io sono Shingo
Questo continuo inserimento di concetti nuovi all’interno del computer scatena nel robot una reazione inaspettata e dopo qualche tempo prende coscienza di sé, considerandosi frutto dell’amore di Satoru e Marin, costretti nel frattempo a separarsi dalle rispettive famiglie che non vedono di buon occhio il rapporto tra i due. Ciò che salta subito all’occhio è che dal primissimo istante Io Sono Shingo ha un’atmosfera cupa e opprimente, così ingombrante da diventare quasi claustrofobica. Tokyo è sporca, spettrale e lascia trasparire un irreale stato di abbandono che filtra dalle pagine e che da subito mi è entrata sottopelle, quasi come ad anticipare le svolte più oscure della storia.

Un Giappone mostruoso visto dagli occhi di un bambino

In Io Sono Shingo emerge da subito la declinazione dello sguardo di Umezu, che racconta Tokyo e il giappone del 1982 filtrandolo attraverso gli occhi di due bambini. La capitale del giappone è mostruosa, infestata di fabbriche, vicoli bui e spazi completamente abbandonati a sé stessi. È il grande mondo degli adulti, fatto di regole, convenzioni e menzogne, dove i padri scappano dal lavoro per andare ad ubriacarsi di nascosto e le madri invecchiano da sole in casa. Quello di Io Sono Shingo è un Giappone moralmente corrotto che si affaccia sul boom economico, un paese in cui i più piccoli sono abbandonati a loro stessi e dimenticati. Un paese dove gli esseri umani incontrano per la prima volta le macchine, ne sono terrorizzati e rispondono cercando di distruggerle per paura che gli rubino il lavoro.

Io sono shingo
Tutti i bambini, nell’opera, sono soli. Non hanno una guida che li accompagni verso l’età adulta e gli è lasciato il compito di crescersi da soli. Anche Shingo, convinto di essere nato dall’amore tra Satoru e Marin, si approccia al mondo con l’innocenza e l’incoscienza di un bambino. È alla costante ricerca dei suoi genitori, e per poterli riunire attraversa un viaggio che gli permette di crescere fino a trascendere sé stesso e a trasformarsi in una divinità onnisciente.

I suoi primi passi nel mondo, però, sono contraddistinti dalla sua ingenuità. Shingo non sa cosa sia la vita, non sa come si generi e dunque non ne riconosce il valore. Questo lo porta a seminare morte e distruzione ovunque si muova. Non che abbia cattive intenzioni, solo non ha fatto esperienza del mondo ed esattamente come i bambini che popolano le strade di Tokyo non ha dei “genitori” che gli insegnino a distinguere il bene e il male.

L’infanzia come cifra stilistica di Kazuo Umezu

È interessante vedere come esista una corrispondenza stretta fra i bambini che popolano le opere di Kazuo Umezu e il suo modo di scrivere. Umezu mette al primo posto la suggestione e il potere dell’immaginazione, dando meno importanza alla coerenza della narrazione. A primo impatto, infatti, Io sono Shingo potrebbe risultare un po’ confuso, colpa soprattutto della sua divisione in blocchi narrativi apparentemente slegati tra di loro. La chiave di lettura dell’opera però è proprio quella dello sguardo infantile di Umezu e dei suoi protagonisti. Io sono Shingo nasce come storia di fantascienza e si trasforma in una storia dell’orrore proprio perché filtrata dagli occhi dei più piccoli, incapaci di processare ciò che gli succede attorno.

Allo stesso tempo, Io sono Shingo parla della perdita della purezza dei bambini, costretti a subire abusi, costrizioni e violenze da chi dovrebbe guidarli verso l’età adulta. Shingo, in questo, non è altro che l’ennesima vita abbandonata a sé stessa in un mondo che non comprende e che vuole solo fargli del male. La sua violenza è involontaria, ed ispirata solo dalla violenza che il mondo gli ha insegnato nel momento in cui l’ha lasciato solo.

Una macchina che diventa Dio e le suggestioni cyberpunk degli anni ’80 giapponesi

Io Sono Shingo si inserisce in un filone della narrativa Cyberpunk molto più crudo dell’immaginario ipermediatizzato negli ultimi anni. Si avvicina molto più al body-horror di David Cronenberg e Shinya Tsukamoto, diventando quasi un progenitore di Tetsuo the Iron Man. Figlio del cogito ergo sum d’ispirazione cartesiana, Io sono Shingo racconta con largo anticipo le suggestioni della fantascienza degli anni ’80 e ’90. Umezu, infatti, si spinge a rappresentare cavi, schede e circuiti come se fossero viscere umane ben prima dell’uscita di Akira o Ghost in the Shell.

Shingo si fa prima pensiero, poi autocoscienza e infine diventa Dio, mentre sotto il suo sguardo Satoru e Marin tentano di ricongiungersi per poter far fronte all’incubo ad occhia aperti che è il Giappone che abitano. Pur ascendendo allo status di divinità, comunque, Shingo ha bisogno di una guida. Necessita di qualcuno che possa insegnargli a vivere e a rapportarsi col mondo che abita. La sua natura “aliena” glielo impedisce, tanto che persino quelli che lui stesso considera i propri genitori non sono realmente in grado di rapportarsi con lui. Questo perché Shingo è si autocosciente, ma è ingenuo ed inesperto e si affida a Satoru e Marin per interpretare la realtà.

Allo stesso tempo, i due bambini considerano il robot un’entità superiore a loro in quanto prodotto tecnologico. Questa mutua dipendenza genera una spirale di tragedie che sfugge al controllo dei tre, mettendone a repentaglio l’incolumità.

Il vero terrore è scaturito dal mondo degli adulti.

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