Nonostante la pandemia sia stata come un palo nell’ano per molti di noi, quello di averci aperto gli occhi sulla potenza comunicativa dei videogiochi, sulla loro capacità di aggregazione, potrebbe essere uno dei pochi meriti del COVID-19 (sforzandosi di vederlo come un merito, eh). E per potenza comunicativa, non si intende la capacità di un videogioco di trasmettere un messaggio sociale, politico o quel che sia (argomento già trattato in altri articoli), ma la possibilità di collegare persone lontane, costrette a rimanere intrappolate tra le mura della loro cameretta. La community videoludica si è mossa celermente, promuovendo i videogiochi come strumenti di aggregazione.
In un certo senso, il videogioco ci ha aiutato a rimanere confinati nelle nostre casette. Ha permesso a tutti di trovare quell’espediente per fare due chiacchere con gli amici e svagarsi nello stesso momento (perché, non so voi, ma ad un certo punto parlare a distanza senza fare niente stufa). Pur da lontano, era possibile farsi una partita a Saboteur su Board Game Arena, spaccare qualche cranio su Warzone o gironzolare in un MMORPG pieno di adolescenti ormonati.
Durante la quarantena, è stato chiaro come il videogioco non fosse solo uno strumento di aggregazione, ma anche un pretesto per radunarsi. Le consuete partitelle online con gli amici esistono da sempre, ma durante la pandemia hanno preso il posto dei classici punti di ritrovo tra amici. Alla sera non si diceva più “ci vediamo davanti al Griffin Pub“, ma “ci sentiamo su Discord“. I saluti non si facevano al tavolo nell’attesa di una birra, ma durante la schermata di caricamento di Call of Duty (che era infinita, tra l’altro).
La community videoludica ha colto la palla al balzo e si è sforzata di organizzare eventi aggreganti online. La campagna #PlayApartToghether ha spinto numerosi publisher internazionali a rilasciare gratuitamente le chiavi di accesso di svariati videogiochi. Ovviamente, non si è trattata di un’operazione di carità, anzi, è stata una mossa decisamente efficace: dal lato dei giocatori, giochi gratis sono una manna dal cielo. Dal lato dei publisher, la pubblicità che ti stai facendo è enorme. A posteriori, si spera che regalare videogiochi possa diventare un’operazione di marketing perenne. D’altronde, c’è chi utilizza questa strategia già da tempo, e non mi pare stia fallendo (vedi Epic Games).
Nell’ottica di promuovere attività che permettessero alle persone di assembrarsi, pur rimanendo distanti, si sono date da fare alcune community videoludiche. Hanno aderito alla campagna #PlayApartToghether anche piccole imprese. Per citarne alcune, Cyberlab Studios ha organizzato l’evento Quarantine Game Jam, un evento destinato a giovani e vecchi sviluppatori e programmatori, e Woman in Games Italia, ha messo a punto l’evento Distanti ma Uniti: Diversità e Inclusione di Genere nell’Industria di Videogiochi, un’interessante iniziativa in favore dell’inclusività, effettuata interamente su Zoom.
E gli eSport?
Al di là della pandemia, quello che ci è rimasto è che i videogiochi stanno diventando sempre di più un collante sociale, un modo per fare aggregazione anche quando non è possibile. Che gli eSport stiano prendendo sempre più piede, non è un segreto. In Italia, i tifosi che seguono eventi di eSport sono circa 1,2 milioni a settimana. Non è impensabile che, tra qualche generazione, allo stadio sarà giocata la finale di League of Legends, invece che quella di calcio.
In tutta onestà, non so se ci sia da preoccuparsi o meno. Non è che io sia un grande fan del calcio, ma non lo sono neanche di League of Legends. Non so se sia un bene o un male praticare uno sport che ti costringe a restare davanti al computer 8 ore al giorno, come non so se sia veramente salutare trascorrere 8 ore al giorno in palestra. Ovviamente, l’equilibrio è la chiave. Fa riflettere che, recentemente, il CISSPAT (Centro Italiano Studio Sviluppo Psicoterapie A Breve Termine) stia formando i suoi psicologi dello sport anche sul tema degli eSport. Ma d’altronde, prevenire è meglio che curare.
Peccato che siano i giochini per lo smartphone e per il tablet quelli che muovono di più le masse. Su circa 26 milioni di videogiocatori in Italia, 20 milioni giocano con lo smartphone. Da un lato dispiace che sia così, anche perché l’industria videoludica AAA si sbatte per fare bene la fisica delle corde e l’effetto dell’erba mossa dal vento, quando poi Brawl Stars fa dieci volte i suoi utenti, anche se non ci sono corde. Tuttavia, è comprensibile che sia così. Il cellulare è tascabile, ci si può giocare ovunque, soprattutto sotto il banco di scuola. A Death Stranding ci si può giocare solo in casa (a patto di avere almeno due orette e mezza disponibili per sorbirsi il pippone finale in una volta sola).
Among Us è quello che ci rimane dalla pandemia, esempio lampante della potenza aggregante del videogioco. Con versione sia mobile che PC (la prima gratuita, quindi tira di più), Among Us prende spunto da Lupus e lo traspone nello spazio. In breve, due traditori devono sabotare la navicella, gli altri membri dell’equipaggio devono individuarli. Gioco semplice, ma perfetto per chi vuole fare un gioco di gruppo restando lontani. Peccato che abbia fatto il boom solo ora.
Almeno ora sappiamo cosa fare quando siamo distanti.
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