Luca D'Angelo

Speciale I videogiochi sono i miei sentimenti

Slegare videogiochi e sentimenti? Impossibile, spesso sono la stessa cosa

Sembra assurdo che nel 2020 qualcuno ci veda ancora dei sentimenti nei videogiochi. Sono puro intrattenimento, no? Lo svago di una trentina di ore, da comprare e poi scambiare con qualcosa di nuovo. Con altre trenta ore di intrattenimento, logico. Un circolo vizioso di comprare per risparmiare al prossimo acquisto, di dischi che vanno e vengono dallo scaffale e su cui abbiamo sempre qualcosa da ridire. Un loop eterno di compravendite in cui i sentimenti non devono entrare, perché gli unici a dover ringraziare davvero sono quelli che i videogiochi li fanno. Glieli paghi fior di soldi, quei due dischi maledetti. Tra l’altro anche parlare di dischi ormai è obsoleto. Siamo nell’era del digitale, perché occupare spazio con i vecchi fisici?

Eppure eccomi qua, a difendere a spada tratta una categoria che ormai sembra indifendibile. Parlo di quelli a cui capita di sentire male al cuore, come se ne avessero perso un pezzo. Confusi, frastornati da quella strana sensazione per giorni interi, alla fine tornano nella propria stanza e si guardano intorno. Ed eccolo lì il pezzo mancante: a fette ordinatamente, maniacalmente esposte sugli scaffali dentro scatole di plastica. Più ce ne prendiamo cura, più ci sentiamo meglio – come fossero Horcrux usciti direttamente da Harry Potter. Mi immolo, conscio delle conseguenze, a difendere la categoria dei malati per definizione di affective gaming.

Non sapete cosa sia l'affective gaming? Rimediamo subito.

Attualmente non si parla molto di affective gaming, ma il paragrafo qui sotto potrebbe essere quanto di più vicino a una sua definizione.

Sia che ci si riferisca a stati transitori di pochi secondi, sia che l’emozione persista per tutta la durata del videogioco il giocatore partecipa a un’esperienza di eccitazione autocontrollata senza un oggetto preciso e tale interazione è senza dubbio di interesse scientifico.

Giulia Gargaglione, “Emozioni nei videogiochi: che cos’è l’affective gaming?”
Ciò che cerca di dirci è che i videogiochi puntano a sfruttare le emozioni del giocatore, far leva su naturali istinti dell’uomo per ottenere uno status mentale di eccitazione. Vorrebbero insomma creare uno stato mentale che lo coinvolga nel gioco, al punto da portarlo a creare una “storia nella storia” tramite le emozioni scatenate.

Ma questa è una definizione fin troppo scientifica per quello che intendo io, e fin troppo circoscritta all’interno dei binari digitali di un videogioco.

Ma di che sto parlando?!
videogiochi e sentimenti
Videogiochi ed emozioni Una storia di pura follia
L’ho detto nel titolo, “i videogiochi sono i miei sentimenti” e spesso staccare le due cose proprio non mi riesce. Nemmeno studiare la situazione accademicamente mi riesce. Perciò lo ripeto: nei videogiochi io ci metto sentimenti, emozioni, coinvolgimento, commozione, e me li porto dietro dopo aver spento la TV.

Finito Death Stranding non riesco più a riaccenderlo tanto mi fa piangere “quella scena”. Acceso Kingdom Hearts III avevo già gli occhi lucidi alla intro, l’incontro nella chiesa tra Cloud e Aerith mi ha dato i brividi: in HD era bello come l’ho sempre immaginato, anche di più. Il trailer di Assassin’s Creed Valhalla? Di nuovo, solo la canzone è stata una scossa. Mi bastano due minuti di trailer in CGI e mi ricordo di ogni Assassin’s Creed che abbia giocato, di ogni libro che abbia letto della collana.

Penso alle storie, ai sentimenti del personaggio.
Mi immedesimo, e quando lo sceneggiatore maledetto mi uccide qualcuno lo vorrei strozzare. Ma non voglio dimenticarmi della categoria dei developer: quelli che sudano sopra al videogioco per anni e anni, per prendersi praticamente solo insulti. Sgobbano spesso anche oltre l’uscita, e se un pixel squadrato gli è sfuggito si meritano un 6 striminzito in una recensione. Ah, ma la storia era davvero bella eh, peccato la rovini quel pixel.

Sono qui a difendere un lavoro duro e pesante, ma anche la mia categoria di persone – quelli che giocano e basta, senza tante lagne. Lo sappiamo bene che per ottenere qualcosa “come dico io” dovremmo farlo noi stessi. Ma siamo pigri e il lavoro da developer è pesante, e ci guadagni soldi e forse non troppe soddisfazioni – leggi “Death Stranding non è il GOTY”. A volte, tra l’altro, non ci capiamo nemmeno tutto tutto di cosa vogliono dirci le creazioni degli altri.

Insomma, ci accontentiamo di emozionarci con il lavoro degli altri.

videogiochi e sentimenti
Perché videogioco? Una visione diversa sulle emozioni dei videogiochi
Ci accontentiamo di essere così coinvolti da piangere noi stessi se un personaggio viene ucciso, e di quella malsana furia di voler entrare nella TV a dargliele noi a quel villain arrogante. Siamo infantili: ci divertiamo, arrabbiamo, frustriamo con poco, e alla nostra età siamo ancora con il pad in mano.

Alla nostra età BB ci intenerisce, e la scena di Ace che muore ci fa stare da cani ogni santa volta – “e se ci fosse mio fratello lì?”. E non ci guadagnamo nemmeno soldi: solo prese in giro.

Siamo soggetti di studio dietro al plexiglass.
Lo siamo, al punto che la definizione di affective gaming non tiene conto che di quello che fa il videogioco. Crediamo nei videogiochi, eppure siamo schiavi di una macchina che fa delle emozioni una potentissima leva verso il nostro portafoglio. Non siamo tonti: non ci sfugge il minimo errore in un videogioco, siamo attenti al framerate. Eppure eccoci là, con le lacrime agli occhi davanti all’ennesima perdita.

Siamo sempre seduti sul divano con il joypad incollato alle mani, e anche i videogiochi più difettati non fanno altro che farci sentire in dovere di ringraziare chi ci ha permesso di giocarli. Ci tremano un po’ le mani, ogni volta che tiriamo fuori il portafoglio dalla tasca per dare i soldi alle zaibatsu. Inseriamo il disco, ancora tremanti – un po’ di emozione, un po’ per paura che l’hype abbia creato enormi aspettative. Eppure, ogni volta, non possiamo che ringraziare: ringraziare i videogiochi e chi li ha sviluppati e pensati.

videogiochi e sentimenti
Ringraziare dei videogiochi, dei pezzi di plastica usa e getta? Davvero ti affezioni a un oggetto? Certo che lo faccio, sì. Ma non sono i videogiochi oggetto fisico che collego alle emozioni. La storia che raccontano decisamente sì, ma non soltanto quella. Guardo a tutto ciò che mi sta intorno. Guardo a quando ho fatto una cappellata a lavoro e torno a casa, frustrato e umiliato, e accendo Beat Saber per sfogarmi. Penso alla realtà virtuale di No Man’s Sky VR, che ha stregato anche i miei amici da pichciaduro e PES. Alla realtà aumentata che ha aiutato la chirurgia. Mi ricordo che Pokémon Red mi ha insegnato l’inglese ancora prima che sapessi che esistevano altre lingue. Scruto la copertina di un randomico Ninja Gaiden, guardo la vecchia PlayStation grigia e polverosa di secoli fa e ricordo che sono regali. Mi ricordo delle nottate su un folle floppy disk con mia madre e mia zia, leggo di chi ha vissuto i videogiochi con il padre e un po’ mi ritrovo e mi commuovo pure.

E non si tratta solo di me…
Guardo alle software house che hanno fatto di tutto per farci giocare anche in quarantena, anche darsi la zappa sui piedi. Leggo di chi ha conosciuto delle voci da un microfono, e si è affezionato così tanto che ha voluto ricordare un amico che non ha mai nemmeno visto. E non dimentico, non posso, che i videogiochi hanno aiutato me ad accettare un addio. In tutto questo io non ci vedo nulla di strano o di sbagliato, eppure, sbalordito, devo prendere atto che è motivo di studio. Devo prendere atto che tutto ciò non solo è considerato una malattia, ma che è anche motivo di derisione mentre difendo una causa persa.

Facciamo così, ve la propongo io una definizione di affective gaming:

L’affective gaming è un catenaccio tra il mondo dei videogiochi, anche al loro esterno, e i sentimenti del giocatore. Può far piangere, ridere, arrabbiare di là dallo schermo con una semplice colonna sonora. Il giocatore ne è consapevole, eppure per qualche sadico motivo è lui stesso a chiudere il lucchetto e buttare la chiave.

Quindi sì: ai videogiochi mi affeziono eccome, senza neanche un “mi spiace”.

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