Siamo sicuri che il modello cinematografico e letterario siano il futuro della narrazione videoludica?
Io certamente non lo sono. Anzi, dopo anni ad osservare l’affanno con cui una moltitudine di director inseguono la chimera hollywoodiana per piegarla alla struttura della narrazione e del ludo delle proprie opere, ne sono sempre più convinto. Perché lo strumento d’intrattenimento più versatile e malleabile, il cui vero limite, più di ogni altra cosa, è l’immaginazione di chi lo usa, dovrebbe copiare tempi, modi e racconti del cinema o della letteratura? Un complesso d’inferiorità che poteva essere giustificato quando il videogioco era ancora parte di una sotto-cultura un po’ denigrata, confinata alla cerchia nerd. Un timore reverenziale che incatena ancora le menti pensanti delle major ad approcci tradizionali, mentre tutto intorno il continuo fermento indie insegna che per raccontare una storia si può fare a meno dei cliché cinematografici, emozionando al ritmo del gameplay, perché l’emancipazione del medium passa anche da un nuovo, e unico, modo di raccontarsi.
L’arte di diluire
Si gioca troppo, e questo porta per forza di cose a diluire la narrazione
Troppo gameplay, dicevano qualche tempo fa Pietro e Antonino, una generazione dove l’open world è sovrano, in cui le software house vomitano addosso all’utente centinaia di ore di gioco per giustificare i 70 euro del day-one, tutto senza rinunciare a sequenze cinematografiche ricercate, spettacolari, sceneggiate con grande cura, che però vengono disperse e annacquate in questo mare di giocabilità. “Ma che ce frega, ma che ce importa, se l’oste ar vino c’ha messo l’acqua”, verrebbe da cantare, ma è difficile fregarsene. Esperienze diluite con missioni secondarie soporifere, sezioni monotone parte integrante della quest principale (non si fa qualunquismo, è un dato di fatto, una prassi che tiene sotto scacco anche i più grandi capolavori della generazione), tutto per estendere il tempo di fruizione, con l’effetto collaterale di intaccarne anche la narrazione. Inutile negarlo, 50 ore di trama, senza perdere tempo in giro, rischiano di essere troppe per riempirle con una narrazione tirata, pienamente convincente, priva di brusche frenate e schizofrenica. È il prezzo da pagare per far dipendere il suo ritmo e la sua incisività da un’entità terza, il giocatore, essere volubile, per abilità e livello di attenzione. Nintendo lo sa bene, e uno dei più grandi meriti di Breath of the Wild è legare l’epicità del suo viaggio proprio al ritmo del giocatore. Il risultato è quello di un peregrinare verosimile nei tempi e negli avvenimenti, lasciando le spiegazioni dei suoi misteri a flashback “collezionabili” e persino ignorabili, per quanto intensi e toccanti, realizzati con grande cura, abbandonando gli schemi della narrativa classica e degli intermezzi per abbracciare davvero il concetto di open world che sussurra la propria storia ad ogni passo, legandosi indissolubilmente all’ambiente di gioco (talmente tanto da ispirare un racconto sulle nostre pagine, basato rigorosamente sull’esperienza giocata).
Tutto nell’avventura di Link viene fatto (o si ha la sensazione di farlo) in funzione del climax finale, persino la raccolta di erbe e cibo, attività davvero essenziale ai fini del gameplay. La chiave è una coerenza spesso ignorata anche dai più grandi, che ha trovato un nuovo punto di riferimento, uscendo dal mondo aperto, nel nuovo e meraviglioso God of War, con il suo ormai famoso piano sequenza (caratteristica osannata nei salotti bene del mondo videoludico) fondamentale ai fini del racconto, colmo di dialoghi mai prolissi compensati da gesti di grande umanità e profondità, mozzafiato nella sua azione no-stop, dove le attività accessorie sono state estremamente scremate, selezionate, lasciando al giocatore solo digressioni veramente utili e divertenti, legate al canovaccio della trama principale, relegandone addirittura buona parte dopo i titoli di coda, un modo intelligentissimo per far godere entrambe le anime dell’opera, quella più raccontata e quella più pulp, arcade, giocosa. Un gigante che ha deciso di revisionare la meccanica delle emozioni e il modo di trasmetterle al giocatore, un esempio davvero futuribile.
È ovvio che se un attimo prima sto raccogliendo erbe officinali e quello dopo mi ritrovo a guardare minuti di cut-scene intensa e scritta da dio, senza però ricordarmi perfettamente cos’era successo nella precedente, lontana magari qualche ora, mi rendo conto che manca il collante della coerenza. Penso ad uno dei miei giochi preferiti degli ultimi anni, The Witcher III, probabilmente il gioco con il miglior copione di sempre, che pur non riesce a sfuggire ai difetti congeniti del genere e all’agrodolce piacere della dispersione. Il modello cinematografico applicato a opere che durano più di una serie TV di media lunghezza, che impongono un dilemma: mondi enormi e ricchi di attività con una narrazione più omogenea e libera o sottrazione di elementi per esaltare l’intensità del racconto, del messaggio?
La chimera del film interattivo
David Cage fa della narrazione il suo cavallo di battaglia
Lo spunto per scrivere questo editoriale me l’ha però dato Quantic Dream con il suo imminente Detroit: Become Human, cinema interattivo in tutto e per tutto dove il giocatore diventa direttore del montaggio, decidendo arbitrariamente con le sue azioni quale bivio narrativo scoprire. David Cage e il suo team hanno svolto negli anni un lavoro affascinante, diventando veri pionieri della recitazione digitale, applicando vere e proprie tecniche registiche al mondo videoludico, andando però incontro, volutamente, a una tragica menomazione sul lato del gameplay. Il risultato è stato sempre innovativo, sin da Farenheit, eppure le sceneggiature, complici buchi di trama e incongruenze varie (per non dire assurdità talvolta), non hanno mai neanche cercato di rivaleggiare col cinema vero e proprio. Sono più che altro esercizi di stile di chi sogna Hollywood ma al contempo ama troppo il medium videoludico per abbandonarlo. Opere rischiose, di grande atmosfera e impatto emotivo, apprezzabilissime, ma anche pretenziose e sbilanciate per natura, apprezzate proprio perché fuori contesto.
Da appassionato di cinema, raramente trovo davvero un videogioco che riesca a rivaleggiare con la settima arte (al suo meglio, ovviamente) quando cerca di mettersi sul suo stesso piano, con le dovute eccezioni, penso a Metal Gear Solid (pur con i suoi alti e bassi), The Last of Us, Uncharted, L.A. Noire, Killer7 – dove il folle cinema di Lynch e Tarantino viene reinterpretato come si può fare solo attraverso i videogiochi -, emozionandomi davvero solo quando gli sviluppatori riescono ad uscire dagli schemi e creare da zero una narrazione realmente mai sperimentata prima. Il primo nome che mi viene in mente è quello di Fumito Ueda. Ermetico, poetico, quasi teatrale nella messa in scena degli elementi narrativi. Storie raccontate attraverso i gesti dei suoi protagonisti, poche parole in lingue estinte, avventure vissute mano nella mano o in solitaria disperazione, per ritrovare l’amore. Un misto di suggestioni, miti e leggende occulte che vengono raccontati più che altro al subconscio, arrivandoci quasi indirettamente. Questo è il mio esempio principale di narrazione possibile solo attraverso il videogioco, opere che porterei a sostegno della tesi “videogioco-arte”. L’emozione di un racconto intenso, illuminante, che incontra la parte ludica che non può mai, mai, mai mancare.
La nouvelle vague, il futuro
Sono quasi convinto che la vera dimensione della narrazione (e della narrativa) videoludica sia già stata trovata tra ’80 e ‘90, con l’avvento dei geni assoluti di Tim Schafer e Ron Gilbert, che hanno santificato il punta-e-clicca e un modo di raccontare storie libero, folle e imprevedibile, veramente iconico per questa industria. Una tradizione che dopo un periodo di appannamento, dopo l’epoca Syberia, è tornata in auge con opere di granissimo impatto e un livello di scrittura eccelso. Penso a The Cat Lady, su cui bisognerebbe fare uno speciale a parte, la saga The Blackwell e un po’ tutto il catalogo Wadjet Eye, passando per la germania di Daedalic Entertainment e dell’indimenticabile The Whispered World, chiudendo il cerchio con Thimbleweed Park e il ritorno sulle scene di Gilbert, senza dimenticare una Double Fine sempre viva e vegeta. Eppure, c’è chi cerca di andare oltre e inventa, sperimenta, lavorando per anni su un progetto pronto a trasformarsi in una rivelazione, o almeno, è stato così per me che l’ho giocato e recensito. Sto parlando di Jason Roberts e di Gorogoa, una storia che si racconta attraverso un gameplay unico, rigorosamente per immagini in libera interpretazione ma con un messaggio di fondo ben preciso, chiaro, toccante.
È un titolo destabilizzante per la forza che riesce a trasmettere solamente attraverso le illustrazioni e la genialità di una giocabilità che è a tutti gli effetti fondamenta della narrazione. Veramente incredibile, futuristico, indimenticabile. Come Roberts tantissimi altri personaggi che popolano, o popolavano, la scena indie cercano e riescono costantemente a proporre metodi narrativi alternativi e efficaci. Se Phil Fish, col clamoroso Fez, ha finito per dare di matto e abbandonare anzitempo l’industria, con nostro grande dispiacere, Mike Bithell è forse il più grande scrittore dell’industria, in questo preciso momento. Dopo l’illuminante Thomas Was Alone, una delle dimostrazioni più lampanti di cosa e come si possa raccontare attraverso i videogiochi, il recente Subsurface Circular ha dato parte del copione in mano al giocatore per evolvere l’avventura testuale verso vette dalle quali non potrà più scendere, narrando non solo una storia sci-fi clamorosamente originale, ma proponendo dialoghi e dilemmi filosofici inseriti in un contesto immutabile e familiare, quello della metropolitana, andando a giocare con la quotidianità del giocatore, con domande che lui stesso è portato a porsi. È un movimento in continuo fermento in cui tutti si influenzano a vicenda e dove anche i progetti più particolari e fuori dai radar del grande pubblico riescono a cambiare la percezione delle major. Nel già citato ultimo capitolo di Zelda è impossibile non riconoscere le note aromatiche delle opere ThatGameCompany, Flower e Journey su tutte, ed è una cosa bellissima, testimonianza di una maturazione artistica che punta al racconto per immagini e sensazioni, lasciando alla mente del giocatore lo spazio di manovra necessario a respirarne l’essenza, facendosi colpire più dall’emozione che dalla frase ad effetto.
Io non voglio criticare per forza chi va sul sicuro, perché i risultati vanno portati a casa, soprattutto in ambito AAA, e di team che chiudono i battenti per un flop ne stiamo vedendo fin troppi ed è sempre doloroso. È anche importante però capire quanto siano limitanti certe impostazioni ormai classiche, per non dire vecchie, alla luce di opere che hanno veramente fatto aprire gli occhi non solo al pubblico ma anche alla critica e agli scettici. La fantasia è un’arma di divulgazione di massa devastante nelle mani di chi vuole osare.
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