Chiudiamo questa retrospettiva sul 2017 con un’anomalia nell’anomalia di queste top 10 “autorali”: un viaggio a ritroso attraverso le 10 esperienze artistiche degli scorsi 365 giorni, da visitare pad alla mano.

Qualche giorno fa ci siamo chiesti cosa sarebbe rimasto del 2017 videoludico escludendone la componente visiva e ascoltandone i battiti sotto al controller, invece di guardarne i fotogrammi in movimento sullo schermo. Un articolo da leggere ad occhi chiusi, per così dire.

Oggi vogliamo fare esattamente il contrario: espandete i vostri sensi al massimo, come novelli Cavalieri dello Zodiaco, e viaggiate con noi attraversando le 10 case dell'Ars Ludica di quest’anno

Un viaggio a ritroso, che dall’uscita cronologicamente più vicina al 2018 alla più distante vuole raccontare quali sono le 10 migliori esperienze artistiche del 2017.

 

Okami HD
Il Giappone videoludico che fu

Per approfondire:
Okami HD (2017)
Il buon Filippo ne ha già parlato nella sua personale ed emozionatissima classifica di fine anno, ma il Giappone videoludico è tornato nel 2017, ed è tornato mostrando artigli e zanne. Un po’ come Amaterasu in Okami HD, giunto ormai alla sua terza riedizione per il grande pubblico: dopo aver vinto il singolare premio di GOTY meno venduto nel suo anno d’uscita (si parla dell’epoca PlayStation 2), Capcom ha ben pensato di ripubblicarlo per PlayStation 3 come classico e recentissimamente come Remastered per PlayStation 4 e PC. E noi, amanti di Kamiya fino al midollo, lo abbiamo comprato tutte e tre le volte.

Perché Okami è un’esperienza, oggi come allora: un’esperienza artistica nel mondo delle leggende Giapponesi, una favola dal sapore orientale e un videogioco come ne esistono veramente pochi. Così pregno di influenze culturali e di riferimenti alla cultura orientale, che si è anche meritato di apparire nel nostro ciclo sull’Ars Ludica. E noi ce lo rigiocheremo ancora, e ancora, e ancora, mai stanchi di tesserne le lodi in lungo e in largo. Chissà che alla prossima riedizione non raggiunga finalmente le vendite che merita.

 

Cuphead
Quando l’estetica fa un capolavoro

Per approfondire:
Cuphead
Il più grosso rimpianto del nostro Antonino Lupo, probabilmente, è non essere ancora riuscito a trovare il tempo per uno speciale Ars Ludica su Cuphead. La rivelazione indie del 2017 è uno dei videogiochi esteticamente più impressionanti degli ultimi anni, con un comparto visivo preso di peso dai cartoni animati degli anni Trenta e delle meccaniche di gameplay squisitamente anni Ottanta; un tributo al vintage, all’arte e all’arte ludica, divertente da impazzire e dannatamente meraviglioso in ogni sua parte. Con anche una grande spinta alla rigiocabilità e al completismo: pieno di extra e di sfide speciali, giocare Cuphead è come giocare un arcade vecchio stampo con un tocco di modernità. Ed è sicuramente un’esperienza consigliata per ogni amante del videogioco.

 

Hob
Level design che diventa architettura

Per approfondire:
Hob
Si sta come d’Autunno: sugli alberi, le foglie, Hob sugli scaffali digitali di Steam e PlayStation Store, e Runic Games pronta ad appassire, anche se ancora non lo sapevamo. Già, perché Hob è uno straordinario – per quanto grezzo – canto del cigno per lo sviluppatore: se davvero è meglio bruciare mentre si è al massimo splendore come Clover Studio piuttosto che spegnersi nell’ombra come ha fatto Rare, allora Runic Games ha scelto la strada migliore. Hob è un diorama cangiante, un mondo dove nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma a seconda delle sollecitazioni e dei progressi del giocatore, chiamato ad interconnettere tra di loro i vari dungeon per poter arrivare alla fine dell’esperienza. Per poi ritrovarsi all’interno di un’esperienza che, architettonicamente, è molto diversa – anzi, molto cresciuta – rispetto a quella delle prime ore di gioco, facendo perno su un level design che diventa a pieno titolo un esercizio di architettura ed una prova di carattere che ricorderemo ancora per diverso tempo. Poco importa se giocando si respirava la necessità di un lavoro di rifinitura che – adesso lo sappiamo – nessuno arriverà mai a svolgere: si può essere grandi anche se si nasce indie e si muore incompiuti, ed Hob ce lo ricorda frame dopo frame e baco dopo baco.

 

Sonic Mania
Una straniante ode agli anni ’90

Per approfondire:
Sonic Mania
Nell’anno che sarà per sempre ricordato come quello delle Operazioni Nostalgia, non si può che essere grati per quel Miracolo di Natale anticipato – o quella Resurrezione di Pasqua a scoppio ritardato, fate un po’ voi – che è Sonic Mania. Il riscatto, dopo anni passati ad accontentarsi di prodotti mediocri quando andava bene e disastrosi quando la copertina diceva Sonic Unleashed, ed è un riscatto che fa esattamente quello che non avevamo il coraggio di chiedere. Un Sonic perfetto figlio dei primi capitoli del porcospino di Sega, ma che non si limita ai tributi a beneficio dei fan in stile Generations, ma li prende ripetutamente a schiaffi e ne sconvolge le memorie. Con i modi ruvidi di chi non ha mai voluto essere il primo della classe in fatto di level design – i manuali li lasciamo volentieri a Super Mario, a noi interessa rotolare in giro alla velocità del suono – e i colori saturi (per non parlare del surround chiptune che da solo riporta indietro le lancette di vent’anni) di chi negli anni ’90 c’era. Un nuovo punto di riferimento in un cielo che per troppi anni era rimasto senza stelle, perfetto specchio di come eravamo e – diamine, è giusto dirlo – di come vogliamo ancora essere, finché le software house che detengono le Proprietà Intellettuali che ci hanno resi i giocatori che siamo vorranno restaurare le loro gallerie.

 

Hellblade: Senua’s Sacrifice
Tra Game Design, Sound Design, Regia e Cultura Germanica
Hellblade: Senua’s Sacrifice è un’esperienza della Madonna. Punto. Chiunque abbia da ribattere, in questo senso, non lo ha capito o non lo ha direttamente giocato. In genere non ci piace ragionare per assolutismi (okay, non crediamo neanche noi a questa frase), ma Hellblade ci ha stupiti dall’inizio alla fine, diventando una rivelazione a medio-budget dal gusto estetico assolutamente fenomenale. Pieno di riferimenti alla cultura germanica (dalle rune alla mitologia) e con un sound-design da paura legato direttamente alla protagonista, la produzione targata Ninja Theory è diventata a pieni voti uno dei videogiochi più amati dal nostro webmaster, che ormai non perde occasione per citarlo ogni volta che può. Con una regia fenomenale, una scrittura magistrale e una trama eccezionale, Hellblade è molto più che un videogioco: è un’esperienza artistica a tutto tondo, che vi farà riflettere sulla vita e sulla morte, sulla psiche e sull’identità, sul coraggio e sulla paura. Se non l’avete ancora giocato, vi consigliamo di recuperarlo subito.

 

Nex Machina (e Gridd)
Vent’anni dopo, si torna in sala giochi
Arcade è più di un genere, è più di uno stile di vita. Arcade è un’attitudine, uno stato mentale che l’industria sembrava aver dimenticato, rimuovendo tutte le icone sacre di quell’epoca dove non avevamo altro Dio al di fuori del quarto di dollaro (o della 200 lire, alle nostre latitudini) ma che invece da qualche anno è tornato più forte che mai, pronto a sfogare gli anni di depressione in un tripudio di psichedelie ed estetiche prese da due epoche fa. Anzi, “prese” non è esatto e non rende bene l’idea: più corretto dire “riprese”, specie se si considera il lavoro fatto da due team molto diversi ma tutt’uno nelle finalità. Da una parte i veterani di Housemarque con Nex Machina, vera e propria lettera d’amore autoerotica al cabinato e flipper di citazioni stroboscopiche allo storico dello studio finlandese – non è un caso, se in fondo alla nostra recensione il verdetto recita “Housemarque che fa i p*mpini ad Housemarque”. Dall’altra gli esordienti Antab Studio e il loro Gridd: Retroenhanced, anni ’80 ma a modo nostro, cyberpunk ma a mono nostro, arcade ma a modo nostro. Fluerescente, duro e puro, severo ma giusto: il perfetto esempio nostrano di impara l’arte e mettila da parte, per poi riproporla retro-migliorata e creare una vera e propria gemma.

 

Prey
Claustrofobia nello spazio

Per approfondire:
Prey
Altro fulgido esempio di quanto il level design, nei videogiochi, sia un equivalente molto prossimo alla Forza di Guerre Stellari, permeando una produzione tutta. Prey è il prototipo del titolo non per tutti: macchinoso sulle prime, molto analogico nelle interfacce e nel dialogo con il giocatore e soffocantemente ricco quando si parla di gameplay, tanto da lasciare spaesati nelle prime ore di gioco in balia dei Typhon. Un titolo disegnato per essere ostile e raccontato in modo da suscitare l’interesse nei panni di chi gioca, disseminare qualche indizio e poi nel finale colpire duro con un jab al mento, ma proprio per questo degno di essere menzionato in questo percorso attraverso l’Ars Ludica annata 2017. Perché il coraggio va premiato, e niente è più coraggioso dell’arte, specie se si prova a proporre questo atteggiamento in un medium che tende al conservatorismo come il videogioco.

 

The Legend Of Zelda: Breath Of The Wild
Una fiaba senza tempo
Sarebbe più facile descrivere cosa non c’è di artistico in Breath Of The Wild: un titolo mastodontico, poetico, affascinante e meraviglioso come pochi, che determina l’esordio in grande stile di Link sulla nuova console di casa Nintendo. Il 2017 è stato un anno d’oro per Nintendo Switch, con l’uscita di grandi IP come il nuovo Super Mario Odyssey, Splatoon 2 e il povero ARMS che, nonostante i meriti, è stato un po’ oscurato da tutte le gigantesche uscite dei mesi precedenti e successivi. Breath Of The Wild non fa eccezione: parte di una lista già piena di grandi nomi, è un’esperienza videoludica dal sapore fiabesco, definito da molti uno dei migliori videogiochi di sempre. Nel nuovo capitolo, Link viaggia per ambienti estremamente diversi l’uno dall’altro, costruiti con una cura artistica e un amore per la bellezza senza precedenti; un ottimo punto di arrivo per l’industria videoludica degli ultimi dieci anni, e forse, chissà, un nuovo punto di partenza per gli anni a venire. Solo il tempo ce lo dirà; intanto, però, Breath of the Wild va giocato, e va giocato con un senso di meraviglia quasi fanciullesco, in grado di richiamare quel bambino nascosto che, come sicuramente speriamo tutti, è ancora in grado di stupirsi di fronte alla bellezza.

 

Horizon Zero Dawn
Sontuoso. E non c’è altro da dire

Per approfondire:
Horizon: Zero Dawn
Si è parlato così tanto dell’aspetto tecnico di Horizon Zero Dawn da mettere in secondo piano tutto il resto, quasi a dire che il titolo di Guerrilla fosse tanta apparenza e poca sostanza, un quadro disegnato con pennellate vivaci e capaci di rimanere a fuoco nelle retine di chi lo guarda ma senza la maestria dei veri artisti (che, manco a dirlo, sono ovviamente quelli che vivono a Kyoto e guai a dire il contrario). Ma Horizon è molto di più che un bel faccino, anche perché Aloy è quanto di più distante dallo stereotipo di “bel faccino” videoludico visto in questi anni. Una bella non in senso tradizionale, senza le forme prorompenti di Lara Croft e sicuramente non nata come la trasposizione in pixel e poligoni dell’ideale femminile di un designer giapponese, ma che ha veramente poco da invidiare alle altre protagonisti femminili che abbiamo potuto impersonare in questi anni. Di certo, non deve invidiare il fascino di un mondo di gioco maledettamente dettagliato, credibile, crudo e soprattutto convincente, che affronta tutto quello che non si vede mai a schermo in caso di apocalisse e lo fa con una freddezza e una verosimiglianza che non può non far riflettere. E se non basta sapere le proporzioni del massacro, l’espansione racconta la stessa cosa mostrandone un esempio più empatico, per non farsi mancare niente.

 

Gravity Rush 2
Ludofumetto d’autore

Per approfondire:
Gravity Rush 2
Il troppo che stroppia, in una rincorsa all’ultimo contenuto fotocopia per raggiungere le 20 o le 30 ore di longevità che annacquano quelle davvero significative in un’esperienza. Eppure non si può non rimanere ammaliati dalla Regina della Gravità, bella e – lei sì – impossibile al punto che non ci si sperava più. E invece alla fine la storia riesce a chiudersi, e imboccando la strada del rinnovamento e dell’adattamento tecnologico, anche questa assolutamente parte dell’Ars Ludica – per chi scrive, anzi, forse proprio il suo cuore pulsante. Il primo Gravity Rush era un interessante tributo al fumetto francese, ibridato con un tratto tipicamente nipponico e schiacciato tra il touchscreen ed il touchpad di PlayStation Vita: un buon risultato, ma che scendeva a qualche compromesso e che dal punto di vista cromatico privilegiava le tonalità seppia. Gravity Rush 2 fa esplodere i colori e sfrutta PlayStation 4 per far flettere i muscoli a Kat e a Raven, più belle ed in forma che mai. Nonostante tutte le note stonate, che però non rendono il titolo meno valido dal punto di vista artistico.

 

 

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