Di come questo tipo di operazioni, se proprio non si resiste allo stimolo di farle, vadano tolte dalle mani della critica.

La classifica è tratta, anzi, redatta. Edge, prestigiosa rivista videoludica nata 23 anni fa nel Regno Unito, ritenuta dagli addetti ai lavori una delle più autorevoli, nonché la più nota insieme al magazine giapponese Famitsu, ha pubblicato pochi giorni fa la classifica dei 100 migliori giochi di tutti i tempi, aggiornandola al 2017 e consacrando al primo posto lo straripante Zelda: Breath of the Wild. Polemiche e perplessità suscitate da questa top 100 non sono però legate a doppio filo al capolavoro Nintendo (e infatti non ci soffermeremo sulla medaglia d’oro), bensì alla classifica tutta, stilata secondo criteri quanto meno bizzarri e inadatti a coprire quello che dovrebbe essere il “meglio del meglio” che l’industria ha prodotto negli ultimi 40 anni circa. Tutte le piattaforme, che siano console, smartphone e tablet, portatili o PC, un solo titolo per serie (criterio applicato in maniera totalmente arbitraria) e una benda sugli occhi per quanto riguarda l’importanza storica di un prodotto. I titoli, virgolettando Edge, devono “stare in piedi da soli”, ma qui, l’unica cosa che non sta in piedi è l’idea di fondo su cui si basano queste 100, bislacche, righe.

Edge, rimandata a settembre in Storia
La questione storica è, a nostro parere, inscindibile da una classifica che mira a consigliare/glorificare quanto di meglio le software house di tutto il mondo hanno sviluppato in decenni di duro lavoro reale e virtuale, in un medium che viaggia a velocità sostenuta, di pari passo con i progressi tecnologici e in cui è facilissimo perdere il treno, l’occasione di lasciare il segno, molto più che nel cinema e nella letteratura. Non si tratta di escludere l’emozione umana della “nostalgia”, bensì di cancellare dagli occhi degli utenti, intenti nella lettura, veri cardini del settore che hanno salvato un’intera industria, facendo innamorare milioni di giocatori fino ad allora disinteressati e apatici a questo hobby. Non troviamo Super Mario Bros. ad esempio, il cui gameplay, tutt’ora puro come acqua di sorgente (e per sempre degno di una top 100), si fece portabandiera del NES dopo la “grande depressione videoludica” del 1983, vero crac che rischiò di privarci di ciò che oggi ci sembra così naturale: avere una console al fianco del televisore. Troviamo un OutRun 2006: Coast to Coast, assolutamente un prodotto eccellente ma dall’importanza storica irrilevante, resurrezione poligonale di un brand che nella sua incarnazione originale, quella del maestro Yu Suzuki, inventò un nuovo modo di intendere i giochi di guida, con un motore grafico rivoluzionario che rappresentò uno dei picchi estetici della storia di questo mondo.

Eliminare da una top 100 i meriti storici e preferire Pac-Man: Championship Edition all’originale, è come escludere da una classifica dei migliori album musicali tutta la discografia dei Depeche Mode, sostituendola con The Remixes ’81-’04.

Edge non ha voluto tenere conto dell’importanza storica e ci ha avvisati, preferendo una vaghezza incredibilmente poco professionale per un istituzione di questo calibro, perfino incoerente, visto che nelle zone alte della classifica troviamo Tetris, precisamente alla posizione numero 7, capolavoro assoluto e senza tempo, come i due che abbiamo appena citato. Allora perché non scegliere una delle mille riedizioni che hanno visto la luce su praticamente tutte le console prodotte, con tantissime modalità e variazioni sul tema? Perché non inserire il recentissimo e ottimo Puyo Puyo Tetris, eliminando con un colpo di spugna anche la posizione 64 occupata dal primo e originale puzzle game SEGA?

Quella che Edge ha voluto fornire sembra più che altro una summa dei migliori gameplay in circolazione (con evidenti falle anche il questo caso), per lo più ovviamente moderni, chiaramente più fluidi e appetibili ad un pubblico che ha saltato gli “anni ruggenti”, vuoi per questioni anagrafiche o di scarso interesse, affacciandosi in questo universo ora, per curiosità o “moda”. Il risultato è però un listone mal amalgamato, le cui fondamenta erano piegate ancor prima di iniziare a costruirlo. Passato e presente devono continuamente rincorrersi durante operazioni del genere, omaggiandosi a vicenda e creando un filo condutto che da forma alla Storia e che, come in quella scritta sui libri, si basa su nomi indimenticabili ora e per sempre; Nessuno si ricorderà mai di Battlefield 4, nessuno se lo ricorda già oggi, con un nuovo capitolo sulla piazza da mesi, tutti si ricorderanno invece di 007 Goldeneye di Rare per Nintendo 64, giusto per rimanere il tema di first person shooter.

Le scelte azzeccate certo non mancano, ma è proprio questa discontinuità tra superfluo e indimenticabile a far storcere il naso, un conflitto che si avverte scorrendo la pagina, sintomo di un articolo che sembra scritto per far discutere prima che incuriosire e informare.

Il criterio sulle serie? Ma fate i seri…
Al cinema nessuno vi consiglierebbe il sequel prima dell’
originale
Ma la classifica stilata da Edge non parte solo dal presupposto – sbagliato, come abbiamo visto – di ignorare deliberatamente la questione dell’importanza storica dai giochi. C’è un altro errore logico, e ben più grave, quando si guarda al secondo criterio di inclusione stabilito a monte: quello relativo alle serie, che permette l’inclusione di un solo capitolo in presenza di sequel e prequel. Errore che a sua volta è duplice, perché nasconde due trappole in cui (nemmeno a dirlo) Edge è caduta in modo clamoroso. In prima battuta, nel caso di serie “lineari” – ovvero serie che sono state gestite pubblicando capitoli fortemente collegati tra di loro – il risultato è quello di veder comparire in questa top 100 solo il capitolo migliore (o meglio, quello ritenuto tale) in elenco, indipendentemente dal fatto che cronologicamente sia il primo, l’ultimo o il settordicesimo della serie. Ed ecco quindi che alla posizione numero 17 troviamo Uncharted 4, che è sì (a nostro giudizio, quantomeno) il capitolo migliore della serie ma – usando le stesse parole che Edge aveva utilizzato per liquidare la questione storica – “non sta in piedi da solo”. Fine di un Ladro è appunto la storia della fine del ladro Nathan Drake, la chiusura di un percorso iniziato con Drake’s Fortune che per forza di cose è legato a quanto successo nel corso dei tre capitoli precedenti, e in particolar modo nel terzo. Ed è ancor più sconvolgente trovare due posizioni più indietro Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, per cui questo discorso vale all’ennesima potenza: è praticamente impossibile giocare un capitolo “solido” della serie che fu di Hideo Kojima senza esser passati dai precedenti. Ed è anzi vera e propria lesa maestà anche solo concepire un’idea del genere. Non ha assolutamente nessun senso lanciarsi in paragoni sempre più pesanti con il mondo del cinema, quando poi in fase di stesura di classifiche di questo tipo non si prende spunto da quello che è forse l’unico atteggiamento che chi fa critica nel mondo dei videogiochi dovrebbe mutuare dal cinema.

In nessuna classifica dei 100 film più influenti del secolo troverete Ritorno al Futuro Parte II, perché è solo una tappa all’interno di una trilogia da guardare in toto.

Il concetto di serie, dopo 8 generazioni di videogiochi, non ha più lo stesso significato
Ma questo è solo l’antipasto, perché a giudizio di chi vi scrive è ben più grave applicare un criterio che faccia riferimento alle serie in un contesto storico come il nostro, dove il concetto stesso di serie è sempre più evanescente. Nella classifica di Edge vediamo per esempio essere presenti Demon’s Souls, Dark Souls e Bloodborne: per quanto sia vero che nominalmente si tratti di tre serie diverse, è innegabile come queste siano tra loro collegate. Non tanto dal punto di vista della mitologia (abbiamo già spiegato perché questo sia il termine più corretto per tradurre “lore”), dove comunque in perfetto stile Miyazaki i collegamenti sono sussurrati, suggeriti ma mai pienamente confermati, quanto proprio da un punto di vista autorale. La mano di From Software è evidente in tutte e tre le produzioni, ed è il minimo comun denominatore dietro al fascino del trittico. Non è un caso che negli ultimi anni, nonostante chi vi scrive abbia provato in tutti i modi a rendere l’espressione taboo, l’etichetta Soulslike abbia spopolato. E un discorso molto simile va fatto per tutto il canone uediano: Ico, Shadow of the Colossus e The Last Guardian sono tre titoli che in apparenza sono scollegati tra di loro (per quanto in realtà è noto che Shadow of the Colossus funga da pseudo-prequel a Ico), ma che di fatto raccontano in tre modi diversi la stessa cosa – ovvero il modo di intendere il medium videoludico di Fumito Ueda. Ueda è un autore, prima ancora che uno sviluppatore, e vale la stessa cosa per diversi suoi colleghi. E di nuovo, è inutile sbracciarsi per il riconoscimento culturale dei videogiochi se poi si continua a ritenere certe figure prima sviluppatori e poi (forse) autori.

Decalogo per una top 10
L’idea alla base della classifica di Edge era buona – anzi, diremmo molto buona. Suggerire 100 must play che ancora oggi sono assolutamente giocabili è un’iniziativa che ha parecchio senso, nell’ottica di spiegare a chi vuole iniziare a capire i videogiochi in modo più intimo i perché dietro a questa industria in continuo mutamento. Il problema di fondo però a ben vedere è un altro, e dipende dal fatto che la critica al videogioco spesso e volentieri prova a scimmiottare la più accademica (e anche più riconosciuta, e forse il perché la si vuole imitare nasce da questo) critica cinematografica. Piccolo dettaglio: il videogioco non ha bisogno di una critica accademica.

Tutte le trappole concettuali che abbiamo trovato nel lavoro di Edge e che più in generale troviamo in diverse iniziative di questo tipo sarebbero facilmente risolvibili, se invece che alla critica il compito di stabilire quali sono i 100 giochi più influenti dell’ultima decade – ragionare su periodi più lunghi sarebbe un altro grossolano errore, visto quanto velocemente il medium può cambiare faccia – fosse lasciata a chi fa videogiochi.

Lo abbiamo già detto: quando si tratta di critica videoludica, vanno deposti i parrucconi e gli accademici e bisogna lasciare spazio ai tecnici.

La forza del medium sta dietro la continua ricerca della Next Big Thing dal punto di vista tecnologico, per cui giocoforza chi ne segue la filiera è costretto a mantenersi costantemente aggiornato. Questo implica il tenersi aggiornato su quanto viene rilasciato dagli altri studi, giocando i loro prodotti o comunque documentandosi e facendosi un’idea del (e sul) loro lavoro. Ed è così che nascono le contaminazioni, ed è così che l’ispirazione, l’erba del vicino, entra di prepotenza nel processo creativo e un prodotto va ad influenzare – anche in modo indiretto, lontano ed improbabile – l’altro. Chi meglio di chi sperimenta questo processo sulla propria pelle può stabilire quali sono i titoli recenti più importanti a disposizione sul mercato?

In parallelo, è necessario un atto di coraggio e di onestà intellettuale mirato ad eliminare le posizioni numerate. L’influenza non ha barriere, e un prodotto può influenzare l’altro a prescindere dai generi di appartenenza – lo abbiamo visto anche con Breath of the Wild, che innegabilmente va a riprendere alcuni aspetti visti in produzioni che fino a questo momento erano molto distanti dal mondo di Zelda e dalla serie di Aonuma. E allo stesso tempo è impossibile stabilire un ordine di priorità delle esperienze proposte, anche abbandonando la pretesa di stilare una classifica che sia universale. Alla luce di tutto questo, come è possibile stabilire se Super Mario 64 ha un peso maggiore di, per esempio, il primo Bayonetta?

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