Recensione Transistor (Switch) – L’amore post-cyberpunk

Sci-Fi Art Nouveau

Il cyberpunk di Supergiant Games, mirabilmente interpretato dalla direzione artistica di Jen Zee, va oltre. Oltre l’immobile immaginario sunnita che ha tendenzialmente caratterizzato il genere nei media in questi ultimi 40 anni, oltre la sua estetica decadente illuminata da neon tossici, specchio di un mondo abbandonato all’inquinamento e al degrado sociale. E così Cloudbank si erge a nuova Parigi, il decadimento diventa raffinatezza, la techno cede il posto a un electro-blues dalle sfumature jazz che arpeggia con le corde dell’anima. Tutto prende una nuova forma cyber-nouveau, tra sfondi che sussurrano amore eterno all’arte di Klimt e dettagli Rococò. Il punk si dissolve, come la voce di Red, spenta, come fosse bastato spegnere un interruttore, bruciare un transistor. Leggere quello che viene dopo è solo un atto di fiducia che non cambia un finale già scritto, sublime.

Monna Lisa Cyberpunk
Un attentato fallito alla musa della città, Red, abito da sera color oro e classe innata, colei che con le sue canzoni può suscitare emozioni travolgenti, follia, meraviglia, amore, l’amore che in quell’attacco ha abbandonato la sua forma terrena, insieme alla sua arte, trafitto da un Transistor, potentissimo, quasi divino, capace di alterare il tessuto stesso di Cloudbank come un sarto, città sospesa tra reale e virtuale, scenografia che non ha né la consistenza ovattata del sogno né quella solida del cemento, un limbo di rara bellezza architettonica, preso d’assalto dal Processo – esercito robotico o virus informatico che sia, non fa differenza – per essere smantellata e riassemblata a immagine e somiglianza degli Orchestrali. Colui che ha dato la vita per proteggerci però è ancora con noi, intrappolato all’interno del componente smeraldino, passato ad un nuovo livello di vita.

“Ehi Red… Mi sa che stavolta non la passiamo liscia…”.

Parole che danno vita alle prime note di una chitarra che sembra piangere, per poi asciugarsi le lacrime e ridestarsi, consapevole che ormai nascondersi è una strada impraticabile, in una città fantasma la cui popolazione è messa in fuga dall’epidemia che solo Red sembra saper combattere. Sa come muoversi, dove andare, come eliminare i soldati del Processo, leggendo attraverso il codice che li muove, anticipando le loro mosse. Il tempo si ferma, l’azione diventa pianificazione, la nostra Monna Lisa dai capelli rossi canticchia e medita, ancora capace di far vibrare le corde vocali. Qui l’action RPG diventa strategico a turni, perché Transistor non solo innova il panorama cyberpunk nel suo immaginario audio-visivo, ma riscrive a modo suo le regole del gioco, arrivando a un’ibridazione dalle sfumature quasi puzzle, dove pianificare gli attacchi e poi passare di copertura in copertura, difendendosi, aspettando di poter distorcere ancora lo spazio-tempo.

Un ritmo sincopato che non riesce mai a stancare e che anzi, induce in assuefazione chi entrerà nel suo gioco di combinazioni, alternando i poteri che man mano verranno assorbiti dal Transistor, frammenti della memoria di chi li ha posseduti in precedenza, alfabeto di un codice con cui solo noi possiamo scrivere. Ogni input ha un utilizzo diverso, portando a uno stile di gioco assolutamente personale e mai imposto, neanche suggerito, con le opzioni fuori dal lotto delle 4 principali pronte a fondersi ad esse per portare a effetti collaterali letali per il nemico, col solo limite della memoria interna dell’arma. Non si fa altro, il flusso circolare di esplorazione-azione è sempre contratto, costantemente e splendidamente commentato dall’anima intrappolata e soprattutto dalla colonna sonora fuori scala composta da Darren Korb, che suona come fosse nella testa di Red, in scala 1:1 rispetto al susseguirsi degli eventi. Ricordi delle serate sul palco dell’Empty Set, illuminata da un fascio di luce, mentre le emozioni prendevano la forma dei membri dell’orchestra d’accompagnamento e Spine vibrava nella sala grazie alla poderosa voce di Ashley Barrett, capace di dare al pezzo un’aura quasi bondiana, alla Skyfall di Adele. Clamorosa.

Un lavoro di caratterizzazione e contestualizzazione al bacio, che mostra una maestria artistica corale di livello assoluto e una cura per i dettagli maniacale, capace di rendere liquidi e amalgamabili i suoi elementi. Basti pensare alla possibilità di fermarsi e permettere alla star di Cloudbank di canticchiare su una traccia strumentale, sentendola seguire lo spartito alla perfezione con quello che rimane della sua voce. Non c’è utilità all’interno del gameplay, ma solo amore per il proprio personaggio. Per tutti, a dire il vero. Ogni attore ha un copione splendidamente scritto, a partire dal nostro compagno di viaggio, capace di raggiungere un livello di empatia col giocatore rarissimo, dando più di una volta l’illusione che si stia rivolgendo proprio a noi. Eccezionale. Un’interazione che non spezza quasi mai il nostro cammino ma che vi si sovrappone, continuando a raccontarci e raccontarsi anche durante l’azione, incurante del livello di attenzione di chi tira i fili. Si torna poi a macinare livelli, sbloccare abilità, potenziamenti e limitatori, altra variabile di game design con cui pasticciare, come fossero i chip di un computer. Altro non sono che malus con cui alterare il comportamento del Processo, la loro forza, le capacità rigenerative e altre caratteristiche, ricevendo in cambio il gusto di una sfida ancora più cerebro-muscolarmente stimolante e un naturale bonus di punti esperienza.

Una filosofia concettuale che dà in mano al giocatore un insieme di regole per poi lasciargli totale libertà di espressione. Il gioco, ludicamente, prosaicamente, è tutto qui; una serie di combattimenti di cui non si è mai sazi, perché entrare nel suo mood di programmazione e riprogrammazione diventa presto cyber-droga che porterà inevitabilmente all’overdose della Ricorsione, un new game + che porta la sfida alle sue estreme conseguenze, col cuore e la mente ancora scombussolati dal cliffhanger finale. È straordinario come i punti di rottura della sua struttura siano assolutamente esposti, pericolanti, a partire da una palese linearità e un’alternanza di situazioni pressoché matematica, eppure tutto rimane sempre in piedi, senza annoiare, senza sbagliare una linea di dialogo, un combattimento, un ambiente o una traccia. Come un Rolex videoludico, che non fa altro che tenere il tempo ma lo fa con grazia ed eleganza, senza perdere mai un millesimo di secondo.

Verdetto
9 / 10
Turn on, tune in, drop out.
Commento
Un gruppo di artisti e designer straordinari, quelli che animano Supergiant Games. Un collettivo capace di rinnovare il cyberpunk con un gusto audio-visivo da far esplodere il cervello, sorretto da una spina dorsale ludica tanto solida nelle sue poche regole, quanto flessibile nella sua messa in scena. L'ARPG vive così di improvvise accellerazioni quanto di lunghe pause meditative, con un ibrido action-turnistico sempre stimolante, vivace, divertente, mentre tutt'intorno il suo racconto si dipana attraverso parole (doppiaggio strepitoso), musiche e panorami urbani, raccontando una fiaba sci-fi tanto criptica quanto indimenticabile, incisa indelebilmente nel codice, protetta in un transistor.
Pro e Contro
Audiovisivamente di un'altra categoria
Racconto emozionante, parlato, non narrato
Meccaniche ARPG fresche, divertenti, stimolanti

x Si intuisce la sua linearità di fondo

#LiveTheRebellion