Anteprima Detroit: Become Human

Potevamo farci mancare una capatina al padiglione Sony della Milan Games Week di quest’anno? Mentre il nostro Stefano era impegnato su pista, uno scettico webmaster si è trovato di fronte alla sua asimoviana balena bianca – Detroit: Become Human.

10 minuti. 600 secondi – istante più, istante meno – che David Cage ci ha concesso pad alla mano, in occasione della Milan Games Week di quest’anno. Troppo pochi, per capire se Detroit: Become Human riuscirà a riscattare Beyond: Due Anime e magari a superare il titolo che ha consacrato Quantic Dream tra il grande pubblico, Heavy Rain. Ma abbastanza per avere un assaggio di quello che sarà – o almeno, la speranza dopo questi 10 minuti è questa – il tono della produzione, quali saranno le tematiche trattate e sopratutto se Isaac Asimov può continuare a sognare pecore elettriche nel suo feretro o deve rivoltarsi nella tomba.

E per il momento David Cage, quasi a sorpresa, sconfigge il nostro scetticismo: non si registrano attività sismiche nei pressi della tomba dell’ideatore delle Tre Leggi della Robotica.

Detroit: Become Human pesca a piene mani dal canone asimoviano
Detroit ci ha subito gettato nel vivo dell’azione, senza contestualizzare appieno quello che sta succedendo – da bravi detective, abbiamo ricostruito i pezzi e ci siam fatti un’idea, ben sapendo che il tema portante dell’opera dovrebbe cercare di capire quanta umanità ci può essere in un robot – e senza introdurre la crisi che ci apprestavamo a gestire nei panni di un androide delle forze dell’ordine. Connor – questo il nome del personaggio giocabile – è chiamato a risolvere una delicatissima situazione, che ha visto il robot della famiglia delle vittime impazzire, mietere due vite e prendere in ostaggio la bambina, minacciando adesso di buttarsi giù dal palazzo trascinando la piccola con lui. Ed è subito chiaro che però gli umani non tollerano la presenza di Connor, visto che (è un classico del genere) i suoi colleghi di carne e vasi sanguigni lo trattano con freddezza e la madre dell’ostaggio si dispera non appena caspisce la natura sintetica del mediatore. Perché non avete mandato un essere umano a trattare? Domanda a cui solo la donna da voce, ma che si capisce aleggiare nelle menti di più di qualcuno dei presenti – da questo punto di vista, Quantic Dream al solito ha fatto un lavoro encomiabile dal punto di vista del motion capture.

Indagini contro dialoghi, con le due meccaniche che si alternano
Ad ogni modo per sbrogliare il caso Connor aveva due alternative a disposizione: fare qualche indagine, per capire le motivazioni dell’androide impazzito e ricavare alcune informazioni su di lui – nome, modello e via dicendo – oppure andare direttamente al confronto. La prima strada (che è ovviamente quella che abbiamo affrontato) permetteva di aumentare sensibilmente le probabilità di riuscita della missione, sempre ben indicate a schermo: più informazioni si raccoglievano, più dettagli si riuscivano a ricostruire – da questo punto di vista le fasi di indagine ci hanno ricordato Batman: Arkham VR e il suo approccio a questi enigmi (ovvero, guarda la ricostruzione da diverse angolazioni per capire cosa manca e arrivare alla soluzione) – e più le probabilità di successo salivano. Ma non è mancata anche qualche “scelta morale”, visto che per esempio una volta trovata una pistola sulla scena del crimine potevamo decidere se armare Connor o lasciarla li. Portate abbastanza in alto le probabilità di successo si è entrati nel vivo della mediazione, composta da quello che è in pratica un dialogo a scelte multiple botta e risposta, dove le opzioni a disposizione erano ovviamente legate a quanto ottenuto durante la fase investigativa. Il criminale ci ha infatti chiesto se eravamo armati, e da questo spunto Detroit permetteva di mentire o dire la verità. In altre biforcazioni del dialogo Connor poteva provare a creare una sorta di empatia con l’altro androide, chiamandolo per nome o accontentando alcune sue richieste, cercando di farlo riflettere o invece affrontandolo a muso duro. Tutte scelte che influenzavano costantemente la probabilità di successo (evidenziando progressi e mutamenti a schermo), fino ad arrivare al 100% e riuscire a salvare l’ostaggio.

Come detto quindi, da questo punto di vista 10 minuti sono pochi (è chiaro, alla “prima passata” l’illusione di aver condizionato la storia in prima persona si sente tutta, bisogna però vedere quanti “binari” ci sono sotto e se con scelte diverse si arrivano a diversi esiti), ed è difficile dire già adesso quanta libertà ci sia, se è tutto fondamentalmente artificioso come in Beyond oppure c’è una maggior varietà. Ma sono abbastanza per allontanare (gran) parte dei dubbi sull’ambientazione e sulla sua resa, visto che David Cage questa volta ha quantomeno fatto i compiti a casa e si respirano tematiche alla Io, Robot ben rese. Ma è la stessa Quantic Dream, a dirla tutta, ad aver fatto bene i compiti: premesso che abbiamo giocato l’esperienza su PlayStation 4 Pro, dal punto di vista visivo Detroit: Become Human ci ha spiazzato.

Si dice spesso “sembra quasi di giocare ad un film”. Questa volta però, credeteci, è vero.

Motion Capure estremamente convincente, dettaglio visivo incredibile e movimenti credibili: l’illusione è davvero quella di pilotare un attore in carne ed ossa (nel caso di Connor, in circuiti e transistor), e anche l’interfaccia a schermo è adeguata, non invadendo troppo e spiegando bene – nelle fasi di indagine – cosa bisogna fare.

Commento
Non possiamo ancora promuovere David Cage, e non possiamo ancora dimenticare del tutto i suoi precedenti lavori, così promettenti ma allo stesso tempo controversi e pieni di compromessi (e qualche plot hole). Su queste pagine lo abbiamo spesso definito l'equivalente ludico di Dan Brown, e per il momento il giudizio è ancora sospeso nell'aria. Però Detroit: Become Human è un serio candidato ad essere un buon emulo di un altro autore – il già citato Isaac Asimov.
Pro e Contro
Indistinguibile da un film, per grafica e animazioni
Temi e umori asimoviani ben resi

x Bisogna capire quanto pesano le scelte

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