Leggetela mentre giocate, così non vi perdete nulla.
Di una guida ai videogiochi e alla loro realtà forse avete bisogno meno di me, ve lo concedo. Un walkthrough per il nostro mondo reale servirebbe un po’ a tutti, invece, ma che ci possiamo fare: dobbiamo viverlo senza. A volte sembra portare a concludere che sia stupido videogiocare, perché si spendono soldi o si viene presi in giro. Eppure io, recidivo nell’ingaggiare le pratiche del demonio, continuo imperterrito con il mio flusso di coscienza. “Che bello il gaming nel 2019“, mi ripetevo costantemente l’anno scorso. Lo facevo con colonne sonore tipo questa nelle orecchie.
Me lo ripeto ancora, ogni volta che rivedo il trailer nostalgico di un Dragon Ball Z Kakarot qualunque o quando ricordo il post-Death Stranding. Me lo ripeto quando sparo nelle cuffiele soundtrack dei nuovi Pokémon, e non avevo le parole per dirlo all’annuncio delle espansioni del gioco. Però volevo farlo. L’elenco continua per ore, il punto lo avete recepito. A me la realtà dei videogiochi piace da matti, e forse anche a voi.
Non me ne stancherei mai.
Il peso di presentarmi in negozio carte alla mano per alleggerirle sparisce subito dopo, nell’istante stesso in cui ho in mano il pezzo di plastica incelofanato che aspetto da mesi. Finisce polverizzato molto prima di inserire il disco, forse lasciato in cassa. Sopraffatto dalle emozioni di un baby Midoriya qualunque aspetto la fine dell’installazione, e finalmente premo X. A dirla tutta, nuovo o vecchio gioco non importa: una volta preso il joystick in mano non me ne separerei più (anche il cane che reclama attenzioni si arrende e gioca con me). Lo confesso: succede che io passi giornate intere a bramare quel momento. È successo ad esempio pochi giorni fa.
Poi ho guardato il tramonto sulle montagne dal balcone dell'ufficio. Sarei morto lì.
Distolto per qualche minuto lo sguardo dallo schermo del PC, mi trovavo davanti quello spettacolo. Così me ne sono ricordato, pur non essendomene mai dimenticato: la mia realtà non è quella dei videogiochi. È fatta di persone che non sempre gradisco, di situazioni che mi fanno venir voglia di implorare l’apocalisse. È fatta di idee diverse dalle mie, molto molto spesso. Da quel breve ma interminabile momento è nata una riflessione, forse banale ma efficace.
I videogiochinon sono la mia realtà – in parte.
Magari è per questo che mi arrabbio di più. Io lo so, tutti noi lo sappiamo, che non viviamo in un videogioco. Per quanto forse vorremmo il contrario ci è chiaro abbastanza come stiano le cose. La realtà dei videogiochi non è quella del nostro mondo, e per questo ci abbattiamo quanto ci struggiamo di ciò che accade nel mondo vero. Anche rifugiandoci ventiquattro ore dentro un casco da realtà aumentata, prima o poi dobbiamo toglierlo e tornare sulla Terra. È pur vero anche il contrario: doversi togliere il casco non significa non poterlo rimettere. Siamo molto fortunati: il mondo in cui viviamo ci offre ben due vite diverse, anzi, una marea.
La realtà collettiva dei videogiochi è un portale verso molte altre esperienze, da avviare a nostra discrezione e da cui spesso imparare. A nostra discrezione, perché il più di noi sa benissimo quando entrare e uscire dal gioco. Abbiamo addirittura l’imbarazzo della scelta, ma non tutti sanno che farsene e ci sputano sopra, sputando sopra nel frattempo anche a chi sa come sfruttare l’occasione.
Tanti portali, tante emozioni. Frammenti di ricordi digitali da trovare un po’ ovunque.
Non vengo qui in vena di critiche o cosa, anche se forse un po’ alla base ce ne sono. Alla base del mio flusso di coscienza piuttosto c’è il voler essere legittimato a fare ciò che faccio, perché non fa del male a me e non mi porta a farne ad altri. Il giocatore lo sa bene che di base di queste altre vite non può essere il vero protagonista, e piuttosto che sognarle preferisce viverle il più fedelmente possibile. Questi mondi virtuali non esistono per illudere degli sciocchi come noi, intrappolarli e renderli inutili alla società. Sono pensati come una via di uscita, ma solo temporanea. Sono uno svago non dissimile da uno sport qualunque, un portale per un cambio d’abito drastico ma rapido.
Ed ecco il punto: io, giocatore accanito, non ci vivrei per sempre.
Non vivrei il cento per cento del mio tempo dentro un videogioco. Messo di fronte ad un mondo costruito ad hoc in cui tutto è possibile, anche cambiare aspetto in pochi secondi, mi ricordo di cosa c’è all’esterno. Ce l’ho sempre in mente, e mi piace in tutte le sue sfaccettature belle o meno: mi piace così tanto che neanche da quello mi separerei. Anche con una realtà virtuale sparata negli occhi e nel cervello da un casco si può ricordare perfettamente quale sia la vera realtà. Forse è proprio il casco che ci aiuta a capire cosa dobbiamo apprezzare e cosa sopportare, cosa prendere a insegnamento e a cosa dar meno peso.
Videogiochi e pianeta Terra, mi piace pensare che le due realtà possano convivere.
Io e chiunque altro al posto mio possiamo e sappiamo distinguere perfettamente la nostra vita da quelle programmate in Unity. È proprio separandocene ogni volta che riusciamo a distinguere tra le realtà, ricordando quel sole in 4K mentre guardiamo tramontare il nostro in ultra HD. E poi, con quell’immagine vivida e luminosa in mente, torneremo a casa e metteremo mano al casco da realtà virtuale, giocheremo qualcosa che ci faccia cambiare scenario. Ci racconterà storie, e ci costringerà a dar la caccia a collezionabili che raccontano la nostra. Saremo ispirati come già qualcuno prima di noi, e riporteremo oltre la lastra di cristalli liquidi ben più di un’immagine: un ricordo, un’idea.
Alcuni di noi, poi, ne faranno un altro videogioco, una nuova realtà immaginaria che nasconde un potente messaggio da trovare per chi ha indosso il casco. “Ricorda“, gli diremo, “ricorda da dove vieni e perché sei qui. Vivi più vite, conosci più mondi, impersona più persone, ma ricorda a quale appartieni.”
Glielo diremo sapendo che lui lo sa già.
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