Nella dualità della vita videoludica, solo la tua unicità ti può salvare.

 

Il nostro “squarcio nel cielo di carta”:
Luigi Pirandello. Ve lo ricordate, vero? Quel tizio che a scuola vi hanno costretto a studiare, quello delle maschere, quello delle citazioni sotto i post degli attori falliti o delle ragazze in costume, quello delle frasi tipo: “Imparerai a tue spese che lungo il tuo cammino incontrerai ogni giorno milioni di maschere e pochissimi volti”(da leggere rigorosamente con voce impostata e con calice di vino in mano) che con le foto su Instagram non è che ci stia proprio un gran che, ma mettete il cuoricino solo per la tipa con le orecchie da cane o per non sembrare stupidi. Bene, nella fanghiglia di false idee, frasi sconnesse, aforismi usati senza conoscenze pregresse e mitologie intorno alla figura di quest’uomo, nella quale siamo costretti a nuotare, premiamo ripetutamente il tasto X del nostro controller (o A o B o qualsiasi cosa vogliate usare) e andiamo alla ricerca di un cono di luce, che, come ci insegna il buon GTA: San Andres, sta ad indicare una quest ancora non terminata.

 

Raggiungiamo il capitolo XII de “Il fu Mattia Pascal”, opera pubblicata nel lontano 1904 e leggiamo giusto il primo dialogo tra Adriano Meis (Mattia Pascal) e Anselmo Paleari. Quest’ultimo spiega il passaggio da teatro antico a teatro moderno con una metafora molto semplice: Nel teatro delle marionette va in scena l’Elettra. Siamo nella parte finale, Oreste è concentrato sul suo obbiettivo, pronto a uccidere per vendicare la morte del padre, non ha problemi, è sicuro, determinato, sulla testa vi è un cielo di carta a sua misura; proprio in quell’istante si apre uno squarcio nel cielo di carta, lì, esattamente sopra di lui, ed è così che Oreste diviene Amleto. La sua vita e i suoi obbiettivi sono insignificanti rispetto alla grandezza del cosmo mostrato dallo squarcio, e i dubbi sulla sua missione e sulla sua identità lo assalgono.

 

I videogiochi sono come il Teatro Antico: tante certezze e pochi dubbi.

 

È un’affermazione azzardata forse, ma veritiera. Ci sentiamo sicuri quando siamo seduti a gambe incrociate sul tappeto, con il gamepad in mano, con la possibilità di chiudere il gioco in qualunque momento.

 

Il videogioco, senza troppi giri di parole, è la sicurezza che mancava nell’era digitale, è la religione del nuovo millennio. Non si gioca per puro spirito ludico; si fa, in realtà, un atto di fede verso un dio programmatore, che ci concede, grazie alla sua creazione, di vivere un sogno ad occhi aperti: possiamo essere diversi da ciò che siamo e allo stesso tempo proiettare la nostra anima all’interno.

 

Pensateci un secondo, quanto vi sentite potenti e immortali dentro al videogioco? Eppure, ne siete immersi allo stesso tempo, ed ecco a voi l’analogia con il teatro delle marionette di Anselmo Paleari: lo schermo con tutto ciò che vi è all’interno è il teatro di carta, i personaggi sono gli involucri vuoti, le marionette, e hanno bisogno di qualcuno che li muova, di un soffio di vita. Quel respiro non è altro che la nostra anima divenuta digitale.

 

Grazie ai nostri fili, il gamepad, possiamo comandare la nostra marionetta, e al tempo stesso noi stessi, verso un obbiettivo, un grande obbiettivo, unico e preciso, dove noi siamo il centro del cosmo, e tutto intorno a noi ruota.

 

Ma da un sogno bisogna svegliarsi prima o poi. Proprio come per Oreste, uno squarcio nel cielo mostrerà la nostra vera forma: una barca di carta ancorata ad un porto digitale.

 

È il momento, dobbiamo salpare, controlliamo al volo i comandi nelle impostazioni, sganciamo l’àncora, guardiamo verso il cielo e salpiamo lontano da quella spiaggia di Byte lucente. Chiudiamo il gioco.

 

La vita reale è il Teatro Moderno: immensa e piena di dubbi.

 

“Capitano! Abbiamo un problema!”

 

“Lo vedo.”

 

“Il mare è troppo forte, affonderemo!”

 

“Così pare.”

 

“Ma… Non pensa a ciò che ha lasciato?”

 

“Ciò che ho lasciato sarà al sicuro anche dopo la mia morte, ma se ora non affrontiamo il mare di dubbi che stiamo solcando, se non affrontiamo la vita stessa, verremo inghiottiti nel suo vortice senza ritorno.”

 

 

È una rappresentazione poetica e simbolica di quello che è il nostro equipaggio: noi, barche di carta, trasportiamo un’intera ciurma, le emozioni, verso l’orizzonte, verso il futuro.

 

Allontanandoci dalla spiaggia sicura del videogioco, abbiamo superato lo squarcio nel cielo di carta pirandelliano, entrando in quella dimensione dubbiosa della realtà. La nostra anima da digitale è tornata a essere di carta, fragile e attaccabile da ogni lato. Ci sentiamo smarriti, vorremmo di nuovo imbracciare il gamepad e immergerci nel mondo videoludico che abbiamo lasciato indietro, vorremmo salvare la nostra ciurma consegnando i marinai alle loro mogli digitali; ma un vero capitano affonda con la sua nave. E allora stacchiamo di mal voglia la cartuccia, andiamo a scuola o a lavoro, usciamo, viaggiamo. Tutte cose belle è vero, ma tutte con un difetto insormontabile in apparenza; tutte ci costringono a porci la domanda più importante, quella che vorremmo rimandare il più possibile: “Che cosa sto facendo della mia vita?”

 

Questo dubbio è solo uno spettro mentre giochiamo. A nessuno verrebbe in mente, immerso nello schermo, cosa fare di quell’esistenza fittizia, si gioca e basta, si segue la quest, la storia, si vive senza preoccupazioni. Eppure, è una risposta che dobbiamo dare e forse l’abbiamo già trovata, basta solo avere il coraggio di volgere lo sguardo verso quel buco nel cielo.

 

La chiglia di byte:
 

Stiamo affondando, non vi è più salvezza; dopotutto, siamo barche di carta nel mare, prima o poi l’acqua penetrerà nelle ossa e saremo troppo pesanti per risalire in superficie.

 

 

“È finita capitano, è stato un onore servirla.”

 

“Conosci l’osmosi?”

 

“L’osmosi?”

 

“Si, quel fenomeno nel quale due liquidi, tramite una fessura, si scambiano reciprocamente ciò che contengono, fino al raggiungimento di un equilibrio perfetto.”

 

“Ma le pare il momento di pensare a certe cose?”

 

“Beh, direi. L’osmosi ci sta salvando.”

 

 

Di nuovo con un tocco teatrale, addentriamoci verso la conclusione del discorso. Quello squarcio nel cielo non deve e non è soltanto un vaso di Pandora da cui fuoriescono i mostri del dubbio; deve essere un canale di discussione tra la realtà e il videogioco. Il videogioco è e rimarrà per sempre un medium interattivo e emozionale, carico di passione, avventura e svago. Tutto ciò che videogiocando facciamo è caricare queste sensazioni e trasportarle con noi nella stiva della nostra nave, il videogioco non vive senza noi e noi senza di lui. Non ci rimane che utilizzare queste emozioni anche fuori dal videogioco, imparare da ciò che abbiamo vissuto nella nostra vita altra e sfruttare i trucchi per affrontare le avversità di tutti i giorni, e viceversa.

 

Ed ecco che quella barca di carta che stava affondando ha ora una chiglia di byte che le permette di galleggiare. Non siamo più due entità separate, non abbiamo più due anime, una digitale e una di carta, ma siamo unici, abbiamo una sola anima dal corpo di carta e dal cuore digitale.

 

La risposta alla domanda è quindi semplice:

 

Noi siamo videogiocatori e come tali videogiochiamo. La vita non è una minaccia, è solo un gioco con una grafica pazzesca.

 

#LiveTheRebellion