Verso la fine degli anni ’90, Bandai aveva una gran voglia di guadagnare una valanga di soldi.
I dirigenti della divisione giocattoli tirano su l’elenco del telefono e chiamano Studio Sunrise per comunicargli che vorrebbero fare una nuova serie animata a tema sci-fi. Dall’altra parte della cornetta c’è Shinichiro Watanabe, il direttore del team creativo di Sunrise, che si mostra interessato e chiede se ci siano delle condizioni particolari da rispettare.
Tutto ciò che interessa a
Bandai è vendere il
merchandise e i
model kit dell’
ennesima serie fantascientifica, e la risposta che gli danno lo spiazza:
Finché ci metti le astronavi puoi fare quello che ti pare
Watanabe chiama a raccolta i suoi fedelissimi:
Keiko Nobumoto per la sceneggiatura,
Toshihiro Kawamoto al
character design,
Kimitoshi Yamane per il
mecha design e,
dulcis in fundo,
Yoko Kanno per la colonna sonora. Ne viene fuori una serie mai vista prima.
Ne viene fuori
Cowboy Bebop.
A Watanabe non interessava vendere giocattoli.
Fu così che
Watanabe e lo studio
Sunrise crearono una serie unica nel suo genere, che mescola una marea di generi che vanno dal
Western al
Noir, mantenendo la fantascienza sullo sfondo. Il pubblico di riferimento, invece, era adulto e maturo, l’opposto di quanto preventivato da Bandai.
E la trama?
In realtà è poco importante; basti sapere che il filo conduttore è quello di un gruppo di cacciatori di taglie spaziali –
Spike,
Jet,
Faye,
Ed ed
Ein, il
Corgi diventato mascotte della serie – alle prese con diversi criminali sparsi in giro per la galassia.
Tutto qui? In un certo senso
sì.
In realtà il
focus di
Cowboy Bebop non sono né il presente né il futuro.
Le mille peripezie dell’equipaggio del
Bebop – la nave “madre” in cui convivono
Spike e soci – non sono presentate come l’elemento centrale della narrazione.
Il rapporto tra il presente dell’azione e il passato viene totalmente ribaltato; il fulcro della narrazione non sono le avventure di
Spike,
Jet,
Ed e
Faye, ma il loro passato. Ciò che li ha portati a ritrovarsi lì, su quell’astronave sgangherata, a viaggiare a velocità siderali tra le stelle, i pianeti e i satelliti del sistema solare.
Ciò che rende “aliena” ma
dannatamente efficace la serie è il fatto che prima della sua uscita il pubblico era abituato a storie in cui i protagonisti attraversavano una crescita sia anagrafica che interiore.
Al contrario, i protagonisti di
Cowboy Bebop non crescono. Quella che seguiamo sullo schermo non è la loro evoluzione personale, ma il loro affrontare le domande esistenziali più intime che scaturiscono dal loro passato. Sono domande così grandi che non possono avere una risposta, e pesano sulle spalle di ognuno.
Che suono fa la solitudine?
Questa
precisa scelta narrativa ha permesso a
Watanabe e ai suoi collaboratori di fare qualcosa di
unico:
Cowboy Bebop si presenta da subito come un’opera in cui ogni singola puntata è metafora di un’
emozione o di una
sensazione ben precisa. Solitudine, gioia, rimorso, disperazione, noia, rifiuto di crescere e, più di tutte, la
malinconia che fa da sfondo a tutte le vicende passate e presenti dell’equipaggio.
Questo è reso possibile dal fatto che ogni puntata non solo è ambientata ogni volta su un pianeta differente, ma anche dal fatto che risponde ai canoni di un genere cinematografico che cambia di continuo. Per questo aspetto è stata fondamentale la colonna sonora di
Yoko Kanno, che esplora vari generi musicali che si adattano perfettamente sia all’emozione portante di ogni singola puntata, sia al genere cinematografico di riferimento.
Quello che vediamo non è un gruppo di amici leali.
Quello che vediamo è un gruppo di persone che coabitano lo stesso spazio, spesso troppo egoiste e troppo concentrate sulla propria sofferenza e i propri rimorsi per
voler comprendere quelli dei propri compagni di viaggio.
Il vuoto della loro esistenza è
lo stesso che separa le stelle e i pianeti.
Watanabe li ha semplicemente fatti entrare in contatto nella stiva del
Bebop.
Sono soli, ma insieme.
#LiveTheRebellion