Recensione INSIDE (Switch) – Angoscia mutante

Intrappolati all’interno di un Truman Show metaforico.

Angoscia. Questo è principalmente quello che ho provato durante le circa 4 ore impiegate a giungere alla spiazzante conclusione di questa installazione d’arte contemporanea interattiva intitolata Inside. L’angoscia e tutti i suoi affluenti emotivi. Il terrore che attanaglia l’anima e fa salire il sangue al cervello durante una fuga, l’inquietudine della calma apparente, di un’immagine colta con la coda dell’occhio, l’orrore che lascia il posto a un senso di libertà e strapotere psicologico una volta superate queste barriere insieme al nostro alter ego. Playdead ha affidato alle emozioni suscitate nel giocatore il copione di una sceneggiatura lessicalmente muta, dove i respiri affannosi, i silenzi e le urla raccontano tutto, insinuando molto di più, in un’opera dalla regia illuminata, capace di utilizzare il piano sequenza per concepire un world design privo di saldature, un blocco unico che racconta un’industria impazzita, dall’agricoltura al terziario avanzato, talmente avanzato da aver superato il segno e sfidato il concetto stesso di vita umana, dove le sfumature di grigio dei suoi scorci, raramente illuminati da raggi di speranza, sembrano rappresentare l’etica borderline di certi uomini di scienza.

Narrativa sensoriale
Inside si racconta attraverso le azioni del suo protagonista, un ragazzino privo di connotati, apparentemente in fuga dall’occulto, scoprendone poi la volontà di insinuarsi dentro ad esso, controllarlo, trasformandosi da vittima a carnefice, attraverso un sistema nervoso sorretto dalle nostre dita. È come leggere un libro in braille, dove i pulsanti e l’analogico diventano lettere, parole, frasi, componendo man mano una sceneggiatura fatta di azioni sospese tra la necessità di sopravvivenza e la sete di curiosità. Se con Limbo la software house danese aveva gettato le basi per il nuovo corso delle avventure bidimensionali, diventando al contempo portabandiera della scena indie, con Inside hanno alzato l’asticella in maniera esponenziale, a livello suggestivo e soprattutto ludico, aspetto criminalmente sottovalutato in opere dagli scopi emotivamente scioccanti, narrativamente sperimentali. Perché se da una parte l’angoscia vigila su di noi come il Grande Fratello orwelliano, dall’altra c’è un divertimento costante, che nasce da un’eleganza rarissima, forse mai vista, nella concezione dei molti puzzle ambientali esaltati dalla precisissima interattività dell’ambiente, concedendosi anche una certa ariosità nel design delle aree e la disposizione sapiente e stimolante, mai banale, dei segreti. Un solo tasto adibito a una serie di azioni totalmente manuali, beatificate da una fisica eccezionale dei suoi elementi interattivi, dando quasi l’impressione di vivere un’avventura punta-e-clicca in live action.

La naturalezza delle animazioni, la loro perfetta reazione in base al contesto, rende attori/direttori di un’azione fluidissima, vissuta con pathos eppure con un certo distacco, angosciati per le frequenti e terribili morti che spezzano l’incredulità degli eventi e al contempo spettatori estasiati, lontani, che osservano la scena come burattinai di un folle reality show (e, come se fosse una matrioska videoludica, nel ruolo di burattinaio ci si troverà anche il nostro io virtuale). Ci si sente quasi colpevoli ad usare il ragazzo dalla maglietta rossa come mezzo per soddisfare la nostra curiosità, mettendolo costantemente in pericolo, facendolo agire sempre sul filo del rasoio, legando il suo destino ai nostri riflessi e spirito di osservazione. Nessun tutorial, nessuna spiegazione, il giocatore è spinto ad agire con estrema naturalezza, come farebbe se fosse al di là dello schermo, nell’incubo.

Inside è un’esperienza che culla il giocatore nel suo degrado sensoriale, immerso nel liquido amniotico dell’angoscia, inseguendo un raggio di sole.

È tutto così splendidamente logico, meccanico, geometrico, da trasmettere sensazioni vibranti, realistiche e per questo uniche. Altro tratto strabiliante è la vitalità dell’ambiente, sia in primo piano che in profondità. Benché il nostro moto sia ancorato sulle assi x e y ciò che accade sullo sfondo degli ambienti avrà sempre un’influenza sull’aspetto ludico e/o comunicativo, andando a creare un percorso bidimensionale che vive in tre dimensioni. Esplosioni in lontananza la cui onda d’urto arriverà sul nostro asse in pochi secondi, dobermann ringhianti, in corsa, sempre più vicini, guardie le cui torce elettriche puntano dritte negli occhi del giocatore, cercando avidamente la sua versione virtuale. Un’illusione capace di immergere totalmente nelle sue acque torbide, in cui si rischia più volte di annegare, quando ci si accorge di aver trattenuto troppo a lungo il fiato per la tensione e la meraviglia.

La sua estetica fortemente desaturata lascia spazio a orrori, congetture, ipotesi, pensieri che non riusciranno a chiudere il cerchio neanche dopo i titoli di coda. Una corsa che inizia di notte, in una foresta spettrale, densa di nebbia, battuta palmo a palmo da guardie e cani che non cercano un generico intruso ma proprio noi. Un’atmosfera che rimanda agli orrori dei campi di concentramento, ricordati da certe architetture che scorgeremo durante la corsa, per poi scoprirne nuovi elementi e spostarci costantemente in avanti nello spazio-tempo, dagli anni ’40 a un futuro indefinito eppure altrettanto terrificante, opprimente, morto, dove la scienza è ormai una setta in camice bianco. Nella semplicità della sue linee e della spenta palette cromatica utilizzata, Playdead riesce a trasmettere una classe e un gusto estetico eccezionale, con giochi di ombre e luci splendidamente verosimili che esaltano le scene più macabre e pulp, capaci di far dimenticare una generale granulosità dell’immagine, visibile soprattutto in modalità docked. A incantare ci pensa anche la fisica che regola ogni oggetto, essere vivente o struttura, differenziandosi naturalmente in base al materiale e all’elemento che si scontra con esso, reiterando la sua perfezione anche con i suoni, capaci di rimbalzare impazziti negli angoli delle claustrofobiche strutture, spezzando con i suoi echi gli infiniti silenzi di una colonna sonora che si paleserà in crescenti bassi carichi di tensione, indefiniti e melodiosi ululati di vento, portando alla mente certe composizioni di Angelo Badalamenti per David Lynch, in pellicole con cui l’opera Playdead condivide certe simbologie, suoni, colori, gusto per l’occulto e la libertà di interpretazione.

Verdetto
9.5 / 10
Silencio... No hay banda.
Commento
Inside è e allo stesso tempo racconta, cripticamente, un esperimento. Playdead, di opera in opera, sta rendendo arte l'avventura bidimensionale, prosaicamente puzzle-platform, non solo creando un'esperienza sensoriale a 360°, ma rendendo sempre più fini e divertenti i suoi importantissimi ingranaggi ludici. Il risultato è un titolo che in egual misura angoscia e diverte, pone quesiti e da risposte tattili, affascina, splende, ponendosi come uno degli esponenti cardine della generazione per stile, valori produttivi, genialità, regia. Certo, si potrebbe sindacare sulla durata, giusto il doppio di un normale film, ma se è vero (ed è vero) che il tempo si misura il qualità, Inside vale ogni singolo centesimo, secondo, emozione e neurone impiegato nella sua assimilazione. Indimenticabile.
Pro e Contro
Geniale, sperimentale, artistico
Ludicamente ineccepibile e stimolante
Narrativa muta dall'estetica devastante

x Non fermatevi davanti alla sua scarsa longevità

#LiveTheRebellion