Ci sono personaggi incredibili, poliedrici, eclettici, che riescono a influenzare non solo il loro settore ma che espandono a macchia d’olio la loro genialità a tutte le arti limitrofe, diventando fonte di ispirazione per altre menti geniali. Questa è la storia di come l’inimitabile regista, pittore e musicista David Lynch è riuscito a influenzare il nostro medium. Scoprite cosa si cela dietro il velluto della stanza rossa.
David Lynch,
classe 1946, nato in
Montana e residente nei pensieri più celati di tutti gli appassionati di cinema, con la sua “settima arte” creata attorno a mistero, occulto e un’interpretazione personale e intima della mente umana, delle sue qualità più incredibili e incomprensibili. Un cinema che spacca in due, tra chi lo bolla come “cagata pazzesca” e altri che non possono fare a meno di guardare ancora e ancora
Mulholland Drive per arrivare all’interpretazione definitiva, illuminazione finale di un percorso psichedelico e deviante all’interno di una
scatoletta blu. Giocando da una vita e appassionato di pellicole
lynchiane in maniera viscerale, sono sempre stato portato, pad alla mano, a cercare in modo maniacale similitudini, tributi e ispirazioni alle varie opere del papà di
Twin Peaks. Una serie tornata in auge con l’attesissima terza stagione, 27 anni dopo il primo, indimenticabile episodio pilota che diede vita ad un mistero ancora irrisolto. Non tanto per l’omicidio di Laura Palmer, quanto per tutto l’occulto che intorno ad esso si nutriva e proliferava, rovinato dalla fretta di una ABC mai perdonata dall’artista, che gli impose di rivelare l’identità del killer durante le prime puntate della seconda stagione. Fortunatamente un rancoroso Lynch restituì il torto con gli interessi, tornando alla regia per l’ultima puntata, andata in onda il 10 giungo 1991 e culminata con un delirante cliffhanger che pose al centro della scena l’agente Dale Cooper e la rossa stanza culto, un’episodio che aprì la strada a quello che sarebbe successo nell’Anno Domini 2017.
Proprio qui inizia il nostro parallelo videoludico, con un fil rouge che si tende tra la serie tv e
l’opera tributo dell’istrionico Hidetaka Suehiro, in arte Swery56,
Deadly Premonition.
in deadly premonition tutto porta alla mente twin peaks, dalla trama ai personaggi, passando per le atmosfere. Un sogno dal quale è dura svegliarsi.
Il titolo è una dichiarazione d’amore ai limiti del plagio (
tanto che gli sviluppatori hanno dovuto modificare riferimenti fin troppo plateali all’universo di Twin Peaks) verso la fittizia cittadina americana e tutte le sue stranezze e bizzarrie.
L’efferato omicidio di una brava ragazza, bellissima e stimata dalla comunità,
comunità dove tutti conoscono tutti, sparlando gli uni degli altri e creando un intreccio aggrovigliato e dal fascino unico, in cui
l’eccentrico detective Francis York Morgan dovrà fare da ago della bilancia per catturare il misterioso killer. Proprio qui risiede la genialità del titolo Access Games, che sotto una scorza tecnica da titolo PlayStation 2 (
anche bruttino) portato a 720p nasconde un meccanismo di vita virtuale unico. Ogni personaggio (
caratterizzato in maniera tale da dimenticarsi la sua natura poligonale) svolgerà le proprie attività nella pittoresca
Greenvale a determinati orari del giorno, spingendoci ad adattarci alle loro routine per indagare nel
torbido mondo sotterraneo della provincia americana, fatta di ciambelle, tavole calde e pinete. La sensazione, per chi ha divorato i 30 episodi delle avventure dell’agente FBI Dale Cooper, è quella di trovarsi a vivere in prima persona quelle magnetiche vicende, nella cornice di un gameplay diabolicamente legnoso nelle sue fasi action, che sarebbe stato molto meglio non vedere, puntando tutto sull’attività investigativa. Poco male, perché per i fan del regista di Missoula Deadly Premonition rimane un titolo imprescindibile e senza prezzo, in cui perdersi tra
orrori sovrannaturali,
ironia pungente e
non-sense, ritrovando in esso i cardini della trama e un’infinità di riferimenti all’opera magna del duo Lynch-Frost.
Twin Peaks ha indubbiamente ispirato anche altre opere ludiche, quali
Alan Wake di Remedy (
ricco di citazioni e incontro perfetto tra la serie tv e alcune opere di Stephen King) e il recente indie
Virginia, con quest’ultimo che pesca un po’ da tutta la filmografia, in quella che è una personale interpretazione del cinema
lynchiano tout court.
Un’infanzia tranquilla e serena, un’adolescenza segnata dall’incontenibile
passione per la pittura, sbocciata in una
Philadelphia “paurosa e decadente” vissuta un pacchetto di sigarette alla volta, nelle quattro mura di un seminterrato/studio dove alla pittura affiancava vivisezioni di insetti, topi e uccelli. Tutto questo faceva parte della sua personale “vita dell’arte”, incomprensibile per alcuni, come per il padre, che una volta visti i suoi lavori gli consigliò di non avere mai figli (
ne avrà poi quattro).
L’anima registica che sboccia coi primi cortometraggi, quando lavorava in una tipografia per vivere, mantenere la moglie Peggy e sua figlia Jennifer.
Un crescente gusto per il macabro e l’incomprensibile, già affrontato nelle sue angoscianti tele, che dalla sua mente veniva trasferito alla celluloide del corto
The Alphabet, grazie al quale vinse una borsa di studio da parte dell’American Film Institute (AFI).
Un secondo corto,
The Grandmother e la rampa di lancio verso l’accademia dell’AFI, a Los Angeles, dove avrà la possibilità di produrre il suo primo lungometraggio, il disturbante
Eraserhead nel 1977, manifesto surrealista e punto più alto della sua carriera, come dice lui, perché ci lavorò senza condizionamenti, indipendentemente e lontano dal mondo delle major. Non è stupido dire che l’
Harry Spencer del film, il compianto Jack Nance, è una sorta di
Fantozzi lynchiano, nonché una proiezione di se stesso. Infelice tipografo della squallida e malata periferia americana,
terrorizzato dall’idea di diventare padre, finendo per accudire un neonato mostruoso e deforme, odiato ma compatito. Un’opera tagliente, toccante, viaggio nei meandri della psiche umana che
nel mondo videoludico trova una trasposizione in una delle opere più bizzarre di Atlus,
Catherine.
Catherine ed Eraserhead, due opere che affondano le radici nelle paure comuni, esaltandole fino a trasformarle in incubi.
Decisamente meno enigmatiche ma altrettanto profonde per tematiche,
le peripezie tra veglia e sonno di Vincent Brooks affondano le radici in simili dubbi esistenziali rivisitati in salsa Teriyaki. Una relazione stabile, una
gravidanza inaspettata alla quale il nostro immaturo eroe non è pronto e una ragazza sexy e tentatrice che rischia di mandare definitivamente all’aria il castello di carte di un rapporto non così solido. Gli
incubi notturni che attanagliano Vincent dopo le serate al bar con gli amici sono
grottesche proiezioni del suo subconscio; neonati giganteschi e deformi che cercano di ucciderlo, versioni malvagie della sua compagna che lo inseguono e una disperata e costante scalata verso il mattino seguente, pena la morte in entrambi i mondi. Un fitto dedalo di incubi-gameplay in cui
l’empatia verso i protagonisti gioca un ruolo fondamentale per godere appieno di tutte le sfumature che l’opera ha da offrire, dove la passione per il cinema di Lynch è una conturbante bonus track.
Non solo influenza però,
David Lynch è entrato nel mondo dei videogiochi anche dalla porta principale, dirigendo una serie di psichedelici
spot durante l’era PlayStation 2, sotto lo slogan “
The Third Place“. Un luogo nel quale vigono regole diverse da quelle che governano in mondo reale, regole che vengono sovvertite e rimpiazzate attraverso l’obbiettivo della cinepresa come tramite un pad. L’assurdo viene sostituito alla realtà, innalzando la mente umana ad unica e inviolabile legge (
al servizio del marketing).
Proprio in quegli anni, a cavallo del nuovo millennio,
uscivano nelle sale due delle pellicole che più di tutte rappresentano il cinema del regista statunitense, fatto di thriller annodati ad un’interpretazione freudiana della personalità umana, dove Io, Es e Super Io si mescolano come nel “gioco delle tre carte” per dare vita a vicende aggrovigliate e dalle molteplici interpretazioni.
Strade Perdute (
1997) e
Mulholland Drive (
2001) parlano del lato oscuro di una Los Angeles madre matrona con i suoi figli, artisti in cerca di successo, turbati e dalla flebile stabilità psichica.
Fred Madison (
Bill Pullman),
apprezzato sassofonista del film anno 1997, è un uomo consumato dalla gelosia e dal sospetto, arso a tal punto da
uccidere efferatamente sua moglie Renee, in un
atto folle che divide la sua psiche in tre parti uguali, portandolo addirittura a
trasformarsi fisicamente nelle altre due personalità, almeno nella sua mente e davanti agli occhi degli spettatori. Un fatto che non può non portare alla mente quello che è il doppelganger videoludico di Lynch stesso, il geniale
Goichi Suda “alias”
Suda51, che in
Killer7 ci racconta un noir psicologico, dove il serial killer disabile
Harman Smith incamera dentro di se sette personalità.
killer7 ispira un fascino magnetico e morboso, come quello tra la luna e il mare. Il manifesto di suda 51.
Queste, dotate di una propria forma fisica e in costante conflitto con le altre, danno vita ad
un viaggio morboso e sconcertante, tra il pulp tarantiniano (
altra chiara ispirazione del nostro Goichi) e l’introspezione tanto cara al nostro Lynch, su un’incredibile sfondo fantapolitico dove i precari equilibri globali possono essere decisi da un colpo di pistola.
Un’opera fatta di simboli e interpretazioni, come televisori presenti solo nei pensieri dell’assassino che fungono da punto d’incontro per sedute psichiatriche mirate alla perdizione più che alla guarigione. Buoni e cattivi posti su un confine quanto mai labile, facce della stessa medaglia nei sensi più impensabili. Il
gameplay su binari non fa altro che accentuare la sensazione di costrizione di quell’involucro chiamato corpo, in contrapposizione alle infinite possibilità di cui è capace il cervello umano.
La scoperta della realtà che si cela dietro l’esistenza degli otto, sepolta sotto quintali di allucinazioni, riuscirà ad essere ancora più shockante rispetto al viaggio lisergico che avremo intrapreso, impossibilitati fino a quel momento di distinguere realtà e follia.
Un’opera eccelsa, concettuale,
spiazzante, dove l’ispirazione è sempre superata dalla brillantezza di un diamante puro, sfaccettato da un game designer unico.
Una realtà inaccettabile, un rimorso insopportabile, la fuga in un sogno che si vorrebbe non finisse mai, il risveglio in un incubo tanto infernale quanto solo la vita sa essere.
Mulholland Drive, capolavoro anno 2001,
Palma d’Oro alla miglior regia al Festival di Cannes, è sorretto da queste quattro colonne, un noir che scende inesorabilmente verso l’oscurità del terrore, filtrato dallo sguardo patinato e sognante dell’aspirante attrice
Betty Elms (
Naomi Watts) e dell’amica (poi amante) Rita, colpita da amnesia dopo un incidente stradale. Un mosaico di situazioni assurde fuori dallo spazio-tempo e ricche di significati, toccante e scellerato, proprio come l’arte inimitabile di Lynch.
Curioso ritrovare così tanti aspetti e similitudini in un’opera che non ha potuto essere influenzata direttamente da Mulholland Drive, visto che usciva anch’essa nel 2001; stiamo parlando di
Silent Hill 2, picco artistico ed emotivo dell’horror psicologico della golden age Konami, molto prima che sacrificasse le proprie IP a maggior gloria del mondo mobile. Il titolo, fortemente ispirato alle tematiche
lynchiane già note ben prima della pellicola sulla famosa strada di Los Angeles, trae linfa sicuramente da Strade Perdute, con un protagonista,
James Sunderland, che viene
catapultato nel labirinto onirico di Silent Hill in cerca della moglie Mary, venuta a mancare qualche tempo prima e da cui riceve inspiegabilmente una lettera, con la richiesta di recarsi presso l’uggiosa cittadina.
Silent Hill 2 è un’opera interamente basata sulle allucinazioni di un personaggio turbato e sconvolto dalla perdita della moglie.
Ogni perversa mostruosità cui il nostro alter ego andrà incontro rappresenta uno stato d’animo: angoscia, senso di colpa, pulsioni sessuali, sofferenza. Una spirale di terrore presente solo nella mente di James,
proiezione fisica di una psiche turbata, che lo trascinerà fino ad un finale che chiude un cerchio spirituale iniziato nei primi minuti di Strade Perdute.
La verità nascosta in una VHS, la moglie che credeva morta di malattia è invece stata uccisa da chi avrebbe dovuto proteggerla e amarla, creandosi poi, mattone su mattone, una verità tutta sua per chiudere l’orrore fuori dalla porta.
Un parallelo tra Stati Uniti e Giappone che si ripropone, tra richiami d’atmosfera,
analizzando anche l’anima pittorica del regista, geniale e disturbante, dove convivono disgusto e magnetismo, proprio come nella fittizia città dal grigio perpetuo. La macabra serie di fotografie ritoccate “Distorted Nudes” (
di cui potete vedere un esempio qui sotto, precisamente la quinta immagine) crea inoltre una sensazione di inquietante déjà vu con le amenità poligonali ideate dagli sviluppatori nipponici.
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Nella mente di chi vi ha proposto questo articolo c’è decisamente una vita pre-Lynch e una vita post-Lynch. David è uno di quegli artisti che può cambiare la percezione della vita e Mulholland Drive è stato il mio sipario di
velluto rosso seguito da lampi blu, segno dell’inesorabile presa di coscienza, quell’IO dormiente nel subconscio che si desta e prende il controllo. Una passione che, come ho detto circa 2000 parole fa, ho cercato e cerco in tutto il resto dell’arte che divoro ogni giorno, in una “disperata” ricerca di quel modus operandi che ha reso il regista così criptico e sopra le righe,
un Mosè che ha diviso e continua a dividere critica e pubblico. 71 anni passati tra pellicole, sigarette, pittura e un “pensare” vorticoso, in continuo movimento, sempre alla ricerca dell’eccesso artistico, derivando al largo nel mare delle masse che non vuole sue.
Un uomo che continua a influenzare chi ha veramente sbirciato oltre il sipario.
“Silencio… No hay banda. È tutto registrato. È tutto un nastro. È solo un’illusione.“
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