“I just wanted to be one of the Strokes. Now look at the mess you made me make.”
Non sarà entrato a far parte del gruppo di Julian Casablancas, come ci racconta proprio nella prima strofa della traccia di apertura, Star Treatment, ma
Alex Turner e i suoi, da quel 2006 dei record hanno cominciato un’ideale staffetta nel mondo del rock con la band newyorkese (
che sarebbe poi tornata sulle scene nel 2011 con un sound totalmente rivisitato), macinando successi alla clamorosa velocità di crociera di Beatles, Rolling Stones e Oasis, tornando dopo una pausa di 5 anni con uno stile totalmente rivisitato.
Per apprezzare a pieno l’ultimo lavoro della band di Sheffield bisogna approcciarlo come un ottimo bicchiere di vino. È un album da sorseggiare, far ascoltare a ogni papilla uditiva, almeno in tre passaggi, per far sbocciare il suo bouquet aromatico ed emozionale.
Un primo ascolto per scoprirlo e abituarsi alla totale mancanza di sonorità aggressive, tirate, dimenticando per un po’ Dancing Shoes, Brianstorm, Crying Lightning, R U Mine, stupendosi davanti a una sonorità veramente inedita per il gruppo, che dal post-punk si sposta su un rock blues dalle sfumature addirittura jazzistiche su cui ci si aspetterebbe di sentir cantare Mark Lanegan (
quasi una presenza spettrale nei cori di “She Looks Like Fun”) o Nina Simone, mettendoci tantissimo del loro stile unico, qui in forma sintentica, moderno e anti-modaiolo.
Il secondo è l’ascolto privo di pregiudizi, una presa di coscienza che, chi li conosce, ha dovuto fare ad ogni nuova uscita, tanto i loro lavori sono sempre diversi gli uni dagli altri (
ma questo lo è a livelli estremi), aprendo la strada alla terza doccia sonora, quella dove si cominceranno a scoprire tutti gli spunti, le ispirazioni, il vero senso di un lavoro strumentalmente raffinatissimo in cui i testi, al solito loquaci (
per non dire squisitamente logorroici), parlati più che cantati, irriverentemente poetici nella loro spiccata originalità, vanità e bellezza (
con alcune strofe davvero clamorose), creano un contrasto totale con le musiche dall’anima vintage,
una psichedelia dal sound futuristico che punta all’allunaggio di Space Oddity,
omaggiando Bowie e usando la route 66 come pista di decollo. I falsetti e le chilometriche strofe di Turner galleggiano sulle costanti linee di basso che prendono quasi totalmente il posto dell’onnipresente e martellante batteria, protagonista fino ad AM, ultimo album in studio datato 2013.
Una staffetta di protagonismo tra Mark Helders e Nick O’Malley che ha davvero cambiato il volto dei Monkeys in questo lavoro dall’anima a stelle e strisce che parte da New York per arrivare a L.A., senza perdere il suo fortissimo accento british. Un viaggio iniziato da Do I Wanna Know?, prima traccia di AM, fino ad incontrare ed evolvere, lungo la strada assolata, il rock statunitense anni ’60-’70 di Beach Boys e Eagles, per vedere l’alba di
Four Out of Five. Primo singolo estratto, dove l’anima sperimentale del tema principale, rilassata ma suggestiva e tesa, esplode all’improvviso in un ritornello deliziosamente leggero nelle tonalità, che rimanda ai piaceri on-the-road. Una traccia che ci parla del mondo contemporaneo con fare distaccato e divertito, dove la mania di recensire ogni cosa e relegare la qualità di un prodotto ad una manciata di stelle stilizzate è ormai consuetudine, naturale come l’ansia di fare qualcosa di originale a tutti i costi, per poi mostrarlo ai propri contatti. Un’avversione verso il mondo social che si respira in giro per tutto l’album.
“Take it easy for a little while. Come and stay with us. It’s such an easy flight. Cute new places keep on popping up. Since the Exodus, it’s all gettin’ gentrified. I put a taqueria on the roof. It was well reviews. Four stars out of five.”
Evoluzione stilistica e incontro di ere che passa anche per le immagini,
il taglio cinematografico del meraviglioso video dalle ispirazioni (
e aspirazioni)
kubrikiane e lynchiane fa ammirare l’incontro psichedelico tra l’Alex del presente e del passato. Cinque minuti di virtuosismo registico che diventa scenografia perfetta in cui far danzare le note e dare in via alla storia che l’album racconta. È tutto un guardare indietro per creare qualcosa di nuovo, una creatura mutevole, spiazzante, difficilmente classificabile. Se il viaggio è iniziato con i ritmi jazz di Star Treatment e continuato con reminiscenze di un rock ‘n roll estinto, tutto si tinge irrimediabilmente di noir durante la notte passata al
Tranquillity Base Hotel & Casino,
dove sembra succedere qualcosa come all’Overlook. Il pianoforte di American Sport introduce e poi lascia spazio alle sale claustrofobiche della struttura orbitante, da cui osservare la Terra con disinteresse (
“So when you gaze at planet earth from outer space.
Does it wipe that stupid look off of your face?”), mentre il tramonto lascia definitivamente spazio alla Luna e a una traccia geniale (
quella che appunto dà il nome all’album), che è forse la vetta dell’intera produzione, tanto nel testo quanto nelle sonorità. La voce di Turner ingabbiata, quasi sussurrata, forse troppo per quella che è la sua estensione vocale. Eppure il contrasto funziona, è una traccia particolarissima, sensuale, accompagnata in sottofondo da note elettroniche, sintetiche, incalzanti, tanto da sembrare un tributo elegantissimo alla colonna sonora di
Profondo Rosso (
e non sorprenderebbe, data la nota passione del frontman per la nostra cultura artistica). Un’atmosfera da “thriller” acuita e inframezzata dalle chiamate alla reception dell’hotel, parte fondamentale di un testo ispirato come se ne scrivono pochi.
“Good afternoon. Tranquillity Base Hotel & Casino. Mark Speaking. Please tell me how may i direct your call?”
Si potrebbe insinuare che tracce del genere avrebbero richiesto l’Alex dei
The Last Shadow Puppet (
importantissimo il progetto condiviso con Miles Kane nella maturazione e mutazione del sound che ha portato a questo album) e in particolare di Aviation, cantata quasi alla Richard Ashcroft, un dubbio che sinceramente non riesco a togliermi, perché
è proprio la particolarità del suo modo di cantare a dare all’album la forza di un racconto in disordine cronologico, più che di un insieme di tracce composte tra i fumi dell’ispirazione estemporanea. È un’opera studiata dalla prima all’ultima nota, affascinante, amalgamata alla perfezione, strumentalmente eccelsa, intimista,
un insieme di culture e influenze musicali scambiate tra Europa e America dopo una notte passata in un motel in mezzo all’Atlantico. Un album dai ritmi quasi cinematografici che ci restituisce una band matura, capace ormai di ogni cosa, sempre brillante e pionieristica, che preferisce fare strada invece di seguire. Un’opera che certamente non cancella il loro passato ma che invece lo completa e restituisce agli ascoltatori il quadro completo della loro grandezza e iconicità, facendo quello che fanno tutti i grandissimi: cambiare rotta e stile senza preavviso, andando dalla parte opposta a quella dove infuria la bufera del mercato, seguendo la propria indole rock ‘n roll. L’unico grosso dispiacere, ora, è il sold out del Mediolanum Forum che, ascolto dopo ascolto, mi spezza ancor di più il cuore e i timpani, puntando già la prossima tourné. Lasciatemi al mio dolore e ascoltate, ascoltate, ascoltate.
#LiveTheRebellion