Potremmo spendere una lenzionata di parole sulla terza stagione di Rick and Morty per raccontare come sia il prodotto che non avremo mai avuto nemmeno il coraggio di sognare – ma che, fregandosene, è arrivato lo stesso sull’etere e ha scatenato il delirio. Però perché sbatterci tanto, se ci ha già pensato il pubblico?
È luglio, siamo nel 1518 e a Strasburgo, Alsazia sta per verificarsi un clamoroso caso di follia collettiva: 400 persone, per diversi giorni, continueranno a ballare ininterrottamente, fino a morire di infarto, ictus o per la troppa fatica. È
La Piaga del Ballo, e ancora oggi non è del tutto chiaro cosa diamine sia successo a tutta quella gente.
Giusto qualche secolo dopo siamo invece in fila da McDonald’s e invece di ballare la gente urla “
Vogliamo la salsa!” (
quando non è impegnata ad accoltellare qualcuno dei presenti), ma anche in questo caso non si capisce perché. O meglio, si capisce che tutto dipende dal primo episodio della terza stagione di
Rick and Morty – dove la famigerata Salsa Szechuan (distribuita con l’occasione dell’uscita del film Mulan) era protagonista della puntata – ma non si capisce come sia possibile che qualche linea di dialogo preso da una serie tv abbia causato tutto questo pandemonio.
Questo, più di tutto quanto potremmo scrivere noi, rende bene le proporzioni di quello che sia Rick and Morty.
Rick and Morty si ferma sempre un passo prima del clichè, e poi fa il c*zzo che vuole
Poi che incidentalmente si tratti di uno degli sceneggiati più divertenti che sia stato intercettato dalle nostre retine è quasi secondario. Perché al di là dei casi di isterismo virale di massa (che è ormai il vero grande marchio di fabbrica di un fenomeno di massa),
Rick and Morty è davvero una serie che
vale la pena di essere guardata. E in particolare questa terza stagione la fa
fuori dal vaso, facendo grossomodo più o meno quello che vuole in dosi di venti minuti e spicci alla volta. È imprevedibile e sembra che
non debba rendere conto davvero a nessuno – nemmeno agli stessi spettatori. Vale tutto: va bene vedere Rick trasformarsi in un cetriolo
perché si (e senza apparente motivo, l’episodio diventa la scusa perfetta per buttare su schermo un po’ di azione nonsense e stereotipata direttamente da
Machete), va bene lo stesso vedere qualche zoom sui personaggi e su quello che provano e vivono, su come Jerry sta affrontando le conseguenze del ritorno di Rick nella vita della famiglia Smith dopo il finale della seconda stagione e su come la situazione si riflette sul resto del cast. Ma
Rick and Morty ci mette un attimo a cambiare direzione, a fermarsi
un passo prima di cadere nel cliché stucchevole e a mettere in scena il suo esatto contrario e a fare autogoal in contropiede. Perché tanto alla fine nessuno sta tenendo il punteggio, e tanto alla fine dopo dieci improbabili episodi ci ritroveremo comunque tutti
ad aspettare l’uscita della quarta stagione come dei pazzi, in fila da McDonald’s
sbracciandosi per una salsa che è stata prodotta per qualche giorno una decina di anni fa.
La vostra faccia dopo aver metabolizzato che ci vediamo tra altri due anni
Il senso di continuity, alla faccia degli anni ’90 e delle operazioni nostalgia
C’è spazio, come al solito, per la fantascienza e soprattutto
per il suo dietro le quinte, tutto quello che di solito ci chiediamo come funzioni quando la telecamera è lontana dallo schermo e finalmente qualcuno ha la decenza di mostrarci (
ma lo fa per puro disinteresse). È anche per qualche riflessione un po’ più profonda, quando si naviga dalle parti del filo conduttore che tiene insieme queste avventure da 20 minuti (
più le scene dopo i titoli di coda) e sui casini che i vari elementi del cast stanno affrontando. 20 minuti che
non sono la solita finestra autoconclusiva sul pazzo mondo raccontato dagli sceneggiatori, perché se è vero che gli anni ’80 e ’90 ci hanno insegnato che tutti i problemi del mondo si possono risolvere in un episodio, i nuovi anni ’10 (non quelli che precedono la Grande Guerra, ma quelli che seguono il boom di Internet) in aperta polemica fanno esattamente
il contrario. C’è una
continuity che va dogmaticamente rispettata, e tutto quello che succede ha delle
conseguenze. E poco importa se basta cercare una delle infinite dimensioni alternative (o farsi costruire un clone con una copia di tutti i propri ricordi) per poter ricominciare da zero o scappare nella direzione opposta, anche se non sembra i personaggi
si portano dietro i segni di tutto quello che succede. Un po’ come in
Bojack Horseman, solo che se lo show del cavallo
made in Netflix va a caccia di supposte di depressione,
Rick and Morty prima di tutto strizza pesantemente l’occhio alla nostra cultura con
continue citazioni e riferimenti (che ci piacerebbe etichettare come “
in punta di fioretto“, ma in realtà non è vero.
Non c’è il minimo rispetto per nessuno, e meno male). C’è qualche punto di contatto, ma è in particolare questa terza stagione a sbattere definitivamente in faccia allo spettatore tutte le differenze tra i due show: da una parte una radiografia intima e spiazzante di quanto possa essere
complesso e complessato l’animo umano (
anche se i personaggi sono tutti animali), dall’altra nichilismo, disillusione e fantascienza. Poi si riflette anche, ma
sono solo momenti di consapevolezza in un oceano nel mezzo di una tempesta di menefreghismo.
C’è spazio, questa volta, anche per qualche promessa non mantenuta, ma la colpa a ben vedere è nostra:
ci si poteva fidare di uno show così? Assolutamente no, per cui
str*nzi noi a farlo e ad aspettarci che alcune delle cose viste nel finale della scorsa stagione avessero dei risvolti anche in questa. Ma
va bene così, alla fine ci interessava vedere cose Sci-Fi
buttate sullo schermo apposta per essere smembrate
in mondovisione, e poco importa se poi Dan Harmon a ben vedere ha riciclato un paio di trovate da
Community (il suo show precedente). E sopratutto, tanto più che ormai abbiamo mangiato la foglia, da una parte non sappiamo davvero cosa aspettarci dalla prossima stagione e dall’altra il serbatoio di trovate ha ancora diversi ettolitri di idee da spruzzare in faccia allo spettatore, anche senza dover necessariamente introdurre altro caos in una serie che
nell’entropia sguazza allegramente.
#LiveTheRebellion