Non è stata la nostra stagione migliore. Ma per fortuna non è stata la peggiore.
Bojack, in un episodio della seconda stagione, commenta così la stagione di Horsin’ Aroundin cui il cavallo diventa presidente degli Stati Uniti (salvo poi scoprire che si trattava di un sogno). Sicuramente non è la citazione più memorabile di tutto lo show – a dirla tutta, anche chi sta scrivendo non la ricordava alla lettera e ha dovuto andare a cercarsela – ma per qualche motivo una volta terminati i 12 episodi rilasciati lo scorso 8 settembre è riemersa da quel mucchio di riferimenti geek e cose del genere che chiamiamo comunemente “memoria”.
Perché effettivamente questa quarta stagione non è la migliore. Ma per fortuna non è la peggiore, e anzi regala alcuni episodi che presi da soli (quelli sì) sono inseribili tra i momenti più alti dello show.
Qualche passaggio corre troppo (almeno lui), ma sta tutto in piedi e lascia ampio spazio ai comprimari
A bocce ferme, fare di più probabilmente sarebbe stato chiedere troppo: arrivati dai cataclismi emotivi della terza stagione – in particolar modo delle ultime due puntate – e con davanti, dal punto di vista delle certezze, solo altre dodici finestre da ventisei minuti per chiudere quello che era necessario chiudere, bisogna riconoscere che il catalogo di Netflix ne esce senza dubbio arricchito. Perché c’è spazio per tutti i comprimari storici, e praticamente ognuno di loro ha un episodio che si dedica quasi interamente a quello che gli sta succedendo mettendo in secondo piano gli altri – in un paio di occasioni sbandierando la cosa in modo plateale e divertendosi a giocare con lo spettatore. Bojack Horseman d’altra parte è una serie che non ha mai evitato i cliché, ma che ricorre a queste soluzioni classiche spesso e volentieri e non fa nulla per nasconderlo – anzi, mette subito la cosa in evidenza fino a farla sfociare nel ridicolo. Ha funzionato per tre stagioni, e funziona anche in questa quarta serie di episodi. Più spazio per gli altri dicevamo, ma non per questo c’è meno Bojack: bisogna dire che il “primo passaggio” da quel che rimaneva dell’attore di mezza età con cui ci eravamo lasciati la scorsa estate al cavallo che poi Netflix ci ha messo davanti nel 2017 è un po’ affrettato, e si passa decisamente troppo velocemente da quell’uomo insicuro che aveva un disperato bisogno di sentirsi dire di essere una brava persona – nonostante tutte le “bojackate” fatte agli altri – ad un pezzo di m…a, ma che sa di essere un pezzo di m…a quindi è meglio dei pezzi di m…a che non sanno di essere pezzi di m…a(o forse no?). Un cambiamento costruito velocemente, ma che dopo il primo shock sta in piedi.
Il problema di questa quarta stagione forse è un nostroproblema con la quarta stagione
Vuoi perché Bojack continua di tanto in tanto a cadere nelle sue vecchie trappole, vuoi perché a schermo al solito ci sono pregi e difetti di un protagonista messo a nudo (solo che questa volta sta sinceramente provando ad essere migliore), vuoi insomma perché lo show non tradisce la sua natura. Bojack è sempre lui, sta semplicemente provando ad essere una versione migliore di lui. E la stessa cosa si può dire allargando il quadro dal Bojack-uomo (o meglio, cavallo) a Bojack Horseman inteso come sceneggiato. Tutti i motivi per cui la serie è riuscita a farsi amare sono ancora lì, il senso di continuity – in aperta controtendenza a quelle bolle di serenità in cui tutti i problemi nascevano e si risolvevano nel giro di una puntata (o di un doppio episodio se le cose erano davvero gravi) – c’è e continua a citare e riprendere continuamente tutto quello che è successo nelle precedenti stagioni. Qualcosa inevitabilmente rimane al palo (ma Ethan?), ma è un piacere ritrovarsi sbattuti in faccia durante un dialogo particolari che si riconosce, e qualche momento addirittura assume un’interpretazione più chiara alla seconda visione della stagione. Come è sempre un piacere vedere che gli sceneggiatori non si fanno grossi problemi a sfiorare il politicamente scorretto, citare e prendere in giro altre Star e Celebrità di Hollywoo e a mettere in scena trovate surreali, che però sotto sotto potrebbero anche grottescamente verificarsi qui nel mondo vero. Insomma, c’è tutto. E allora cosa manca? Niente, forse. Forse il problema è di chi sta scrivendo e questa quarta stagione è in effetti la migliore tra quelle proposte. O forse in realtà il problema di fondo è proprio il fatto che Bojack sta cercando (spesso fallendo) di cambiare, e alla fine della stagione sembra aver trovato quella che potrebbe essere un abbozzo di quadratura del cerchio. Non è il suo posto, ma potrebbe esserlo, e inevitabilmente questo lascia un senso dolciastro in bocca dopo aver masticato gli ultimi episodi – e sotto qualche punto di vista va bene così, anzi mentre stavamo guardando lo schermo ci siamo ritrovati a pensare che volevamo esattamente quello.
Ma sotto altri punti di vista la quarta stagione di Bojack Horseman lascia troppa speranza, è quasi un happy ending (o meglio, happy starting) per qualche personaggio.
I personaggi a cui alla fine le cose sono andate male sono proprio i personaggi che immaginavamo si sarebbero ritrovati in quel pantano. Il modo in cui ci si arriva è sorprendente e spiazzante, tant’è che ad un certo punto si ha il sospetto che il proiettile sia stato schiavo (e invece…), però il risultato finale alla fine è quello. È una colpa? Non necessariamente. È molto probabile che tutto dipenda dalle aspettative e da quello che si voleva dalla serie. Nel nostro caso? Beh, da Bojack Horseman volevamo supposte di depressione, e questa volta invece Netflix ha prescritto la stessa cosa ma in versione effervescente. Questi 312 minuti di visione, cinque ore e spicci (davvero ho guardato tutta la stagione in una sola giornata? Ho un serio problema) vanno giù più facilmente, e forse è proprio questo che destabilizza.
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