In un nostro vecchio speciale avevamo definito l’ottava generazione “la generazione del gameplay“. Siamo fondamentalmente ancora di quell’idea, però è indubbio che qualcosa sia sfuggito di mano – sia a chi crea contenuti che a chi poi ne fruisce.

Difficile stupire come col passaggio da SD ad HD…
L’ottava generazione è a suo modo una generazione innovativa, completamente diversa – dal punto di vista filosofico – rispetto alle precedenti. Sì, abbiamo avuto il solito upgrade dal punto di vista della potenza di calcolo e sì, stiamo comunque assistendo come spettatori paganti a show che sulle macchine precedenti non sarebbe stato possibile allestire. Ma bisogna ricordare che l’ottava generazione è figlia di uno scenario estremamente particolare dal punto di vista economico (i prezzi dell’hardware, anche al lancio, erano decisamente lontani dai 599€ richiesti da PS3 al suo day one), ma anche tecnologico. Con un HD ormai ampiamente sdoganato e con l’utenza già ben abituata a questa nuova risoluzione e volendo andare incontro agli sviluppatori abbandonando le storiche, classiche e complicatissime soluzioni proprietarie a livello di hardware utilizzate fino a quel momento, era inevitabile non poter ripetere l’effetto meraviglia visto con il passaggio dalla sesta alla settima generazione – che per molti è stato il passaggio dalla presa scart all’HDMI.

…Ed ecco che si punta sui contenuti. Esagerando
Ed ecco perché si è arrivato alla generazione del gameplay, una generazione che non punta più soprattutto a stupire dal punto di vista visivo ma vuol farlo contenutisticamente parlando. Se prima solo una manciata di generi videoludici potevano offrire un numero di ore di gioco consistente (dove per consistente intendiamo al di sopra delle 20 ore), adesso questa è diventata quasi la norma. Open World, missioni secondarie, modalità multigiocatore online – sincrone o asincrone – sono diventate un must, in più di qualche caso anche andando ad abbracciare una filosofia always online che oltre a “spingere” la componente sociale dietro al titolo è un perfetto trait d’union tra il videogioco tradizionale e i mondi persistenti degli MMO.

Stiamo giocando di più, in parole povere. Ma in certi casi stiamo giocando troppo (parole che non mi sarei mai sognato di scrivere, un giorno). E stiamo giocando anche male.

C’è infatti un rovescio della medaglia: in un mercato che ormai tende verso la longevità – e che soprattutto, come abbiamo già avuto modo di dire fino alla nausea, è più ricco di uscite che mai – un produttore deve riuscire a convincere i potenziali clienti a investire sul suo prodotto. E il modo più sicuro di farlo, quando la concorrenza propone sempre più contenuti, è fare la stessa cosa: ed ecco che quindi il titolo viene infarcito di missioni secondarie, di mappe sempre più grandi, di contenuti extra che puntano ad aumentare la longevità complessiva del tutto. È un male? No. Ma solo se le cose sono fatte per bene. Nessuno – né in questa sede, né ci auguriamo da nessun’altra parte – potrebbe lamentarsi che in The Witcher 3 ci sono troppi contenuti, la mappa è troppo grande e Geralt è invischiato in troppe missioni secondarie. Perché sono tutti elementi funzionali alla creazione del mondo di gioco, che CD Projekt ha distribuito in modo intelligente e confezionato con una cura maniacale: è vero che sotto sotto le missioni secondarie si riassumono tutte in “raccogli informazioni, trova il mostro della settimana, uccidilo, incassa“, ma ognuna di queste operazioni è inserita in un preciso contorno narrativo, che ne spiega premesse e conseguenze (a volte, facendo anche riferimenti al canone letterario della saga dello Strigo o ad altre opere).

The Witcher 3

The Witcher 3 equilibria alla grande longevità e contenuti. Il risultato è un’esperienza che siamo fieri di aver giocato

 

Non si tratta dei soliti riempitivi, inseriti su disco solo per far numero o per spalleggiare alcune manovre pubblicitarie che poi inevitabilmente vengono a noia, pad alla mano. Quante volte abbiamo sentito sviluppatori e publisher magnificare la worldmap del loro titolo definendola grandissima, immensa ed esagerata salvo poi scoprire in corso d’opera che mancava la sostanza, che le aree erano tutte simili, spoglie e povere?

Ed eccoci al secondo, grosso problema: queste manovre purtroppo funzionano.

Prova ne sia appunto il fatto che diverse volte ognuno di noi è caduto nel tranello, acquistando un titolo che prometteva ore e ore di intrattenimento che poi in realtà strada facendo si sono rivelate ripetitive e sterili. Ma tutto questo non ci ha fermati, tant’è che se adesso chiedessimo al lettore se la longevità è un fattore importante per valutare un acquisto la risposta sarebbe un semplice “sì”, senza tirare in ballo queste considerazioni. In definitiva guardiamo troppo alla quantità, più che alla qualità dell’esperienza giocata. Nessuno escluso, perché chi produce software si muove così, chi consuma software risponde premiando queste iniziative e molto spesso anche chi fa critica esprime un giudizio che mette in relazione le ore di gioco con il prezzo del titolo sotto esame (quello che chi sta scrivendo definisce “rapporto prezzo/contenuti”, a riprova del fatto che nessuno è senza peccato). E questo sì, è senza ombra di dubbio un male: perché un videogioco non costa solo 70€ – o qualunque sia il suo prezzo sul vostro store di riferimento – ma dopo l’acquisto richiede un altro investimento, che è molto più prezioso del denaro spero: il vostro tempo.

Qualunque idiota con due lire da parte può acquistare un videogioco. Dedicargli il giusto tempo però è un lusso che non tutti – e non sempre – possiamo permetterci.

Perché inevitabilmente il tempo a disposizione è sempre meno, e sarà sempre meno man mano che gli anni passano (che si cresce, verrebbe da dire). È un paradosso ineluttabile, ma con l’aumentare delle finanze che si ha a disposizione per rimpinguare la propria ludoteca diminuiscono in proporzione i momenti che si riesce a dedicare a queste attività.

superhot vr gameplay

Superhot VR è a mani basse l’esperienza più galvanizzante dell’anno. Ma siamo sicuri che in troppi l’avranno evitata “perché dura troppo poco”, perdendosi tantissimi momenti di pura estasi ludica.

 

Bisogna guardare meno al contatore delle ore e più alle sensazioni
E proprio per questo motivo davanti allo scaffale andrebbe privilegiata la qualità, non la quantità: preferite davvero giocare 30 ore di contenuti piatti, se non addirittura procedurali, rispetto a 10 (ma anche a 5) ore che poi vi rimarranno impresse nelle retine e nel cuore? Finché i vari Superhot VR – rei di non essere in grado di vantare una longevità eccezionale e di esaurirsi in circa tre ore di gioco – varranno meno di esperienze capaci di vendere più fumo, ma meno arrosto, la tendenza rimarrà questa. Ed è un problema sopratutto per gli sviluppatori, perché si trovano loro malgrado ingabbiati in un sistema che li porta a soddisfare una domanda che non sentono loro, mettendo in ombra gli aspetti su cui vorrebbero davvero mettere le mani (come si diceva nell’undicesima puntata di Gameromancer, il nostro podcast).

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