Ilaria Celli

Postcrypta #7: Memorie di sola lettura

TW: attacchi di panico

Avete mai avuto un attacco di panico? Io sì, molti.

Un* può immaginare l’attacco di panico come qualcosa che ti fa camminare freneticamente per la stanza, con le lacrime che non vogliono smettere di scendere, il respiro pesante, le mani che gesticolano, i capelli strappati annodati alle falangi. Non so se sia uguale per tutt* – forse questa rappresentazione un po’ cinematografica magari ha un suo fondo di verità per qualcun* – ma io durante un attacco di panico mi ghiaccio. Il corpo si fa pesante, il cuore non riesce a trovare un ritmo regolare, e la pelle mi sembra diventare così sensibile che quel battito mi pare percepirlo dalle vibrazioni che trasmette lungo il tessuto della maglietta, sul petto.

Inspiro, ma i miei polmoni continuano a essere vuoti. Oddio, questa è strana da descrivere… è come se foste assetati, ma vi rendeste conto che ogni goccia d’acqua sembra svanire dentro la vostra bocca. La sete rimane, così come rimane l’insoddisfazione di non aver bevuto. E allora continuate a trangugiare un bicchiere dopo l’altro, sentite l’acqua che si scontra con il palato per poi svanire, mentre la gola vi sembra sgretolarsi, spaccarsi in decine di tagli brucianti. È la stessa cosa; è un continuo tentativo di divorare l’aria, soffocandoci dentro.

Che ragionamento idiota. Sei solo egoista, e tremendamente triste

Mi concentro sul respiro, sento le narici che si dilatano e che quasi bruciano per lo sforzo di inspirare quanto più possibile, ma rimane costante la sensazione di soffocamento, ed espirare porta con sé lacrime che scendono nervose. Il mondo non rallenta, non va in stop motion, ma è come se io smettessi di funzionare in relazione a tutto ciò che mi circonda. Ecco, sì, se dovessi descrivere brevemente un mio attacco di panico direi solo che è una percezione vivida e cosciente di un mio malfunzionamento, e che tutto ciò a cui riesco a pensare in quel momento è che vorrei solo spegnermi, perché l’attesa fa male.

Avete mai avuto un attacco di panico giocando a un videogioco?

I giochi possono far divertire, possono far riflettere, far vivere esperienze incredibili e attivare qualcosa che molti esseri umani dimenticano essere possibile, come l’empatia. Ma un attacco di panico? Immagino dipenda da cosa ti porta a vivere. 2064: Read Only Memories però è uno dei miei giochi preferiti; lo cito in continuazione e ne parlo ogni volta che posso. Eppure, al finale di quel gioco io ho avuto un attacco di panico.

Il gioco ne ha tre di finali possibili. La scelta del finale dipende da come ci si comporta con l* altr* personaggi nel corso della storia. Dipende dalle tue risposte, da quanto sei stat* più o meno empatic*, da quanto sei riuscit* a metterti in discussione per provare a comprendere le ragioni altrui. È più difficile di quello che sembra capire come rispondere, ve lo assicuro.

Quel maledetto finale buono

Dannata immedesimazione e schifosa empatia. Doveva essere il “finale buono”, quello in cui il piano funziona, Big Blue viene fermato prima del lancio, e i piani della Parallax sfumano. Ce ne andiamo tutt* e tre content*, sollevat* e stanch*.

Il giorno dopo, alla mattina di Natale, faccio una passeggiata con Turing per i parchi e i luoghi che avevamo visitato durante le indagini, e lui viene travolt* da macchine ora senzienti per merito suo. Lo sapevamo, era questo il piano: sfruttare le reti di Little Blue per copiare quella parte di codice che rende Turing cosciente di sé all’interno di tutte le macchine, prima che Big Blue venisse attivato e ne prendesse il controllo. Lo sapevo, me lo aspettavo. Ma non mi aspettavo lacrime, espressioni di dolore, domande martellanti sul perché abbiamo dato loro la vita, e su cosa dovrebbero fare ora. “Dicci cosa fare, Turing! Siamo vivi per merito tuo, dicci cosa fare.”

Io non lo so.

Turing mi guarda, ha paura anche l*i. Si è di colpo res* conto che ha dato la vita a qualcun* senza che quest* fosse d’accordo e senza sapere cosa avrebbe comportato. Ha imposto la vita, e ora si sente responsabile per entità per le quali in realtà non può fare nulla se non condividere quel poco che sa anche l*i, che però non è abbastanza per saper gestire l’esistenza. Non c’è un abbastanza. Fin lì mi sentivo solo in colpa. Un finale buono che avrei preferito non vedere, tutto qui. Ma quando uno di loro inizia a rivolgersi a Turing con odio, mi sono bloccata. Ecco il panico che inizia.

“Io non ti ho chiesto di vivere. Ora so che sono un modello vecchio, e tra poco mi sostituiranno” il respiro inizia a farsi faticoso. “Ora, per colpa vostra, ho coscienza della mia fine, e la vivrò in ogni istante” non voglio leggere il resto della frase, i muscoli iniziano a irrigidirsi; “non mi avete liberato, non mi avete fatto un dono, mi avete solo reso consapevole di un dolore che non posso cambiare.”

Perdonami, davvero. Non volevo farti stare male.

Diventare madre

Per una frazione di secondo, giusto per poco, l’immedesimazione, quell’empatia a me tossica di cui solo sono capace e che mi logora perché mi rende difficile poi staccarmi dalle emozioni altrui, per un attimo, mi sono sentita diventare madre, e mi sono fatta schifo.

Non voglio generare vita, non voglio davvero. Come potrei crescere un individuo verso il quale proverei un costante senso di colpa? Come potrei gettarlo violentemente in questa vita pensando di fargli un dono?

Vivere senza figli vuol dire vivere per nessuno.

“Tu sarai un essere umano, Steven, e sarai splendido perché potrai essere tutto quello che vorrai!” maledetta Rose Quartz. Ogni volta che in Steven Universe facevano vedere quel pezzo capivo quanto in realtà fosse un personaggio egoista, narcisista, incentrat* solo su di sé. Hai creato una vita umana solo perché affascinat* dal fatto che questa possa “essere qualunque cosa”?!

Solo io ci vedo violenza e infantilità in tutto questo? Probabilmente sì.

Perché non te ne sei andato, Turing? Perché non hai capito che non ne valeva la pena? Perché non sei entrat* in Big Blue e l’hai fermato dall’interno, risparmiando la vita a tutt* l* altr* robot. Per quale razza di motivo finiamo sempre per credere che sia un momento di gioia quando un essere nasce?

Non avete paura per loro? Non sentite quanto il vostro “farò del mio meglio” sia in realtà un niente? Avranno momenti di felicità, si divertiranno, saranno contenti, ma saranno in una costante lotta, pur non volendo. È estenuante.

Bloccata

E così mi sono fermata. Un attacco di panico che mi ha portato a piegarmi per il dolore al petto e alle mani, irrigidite a forza, di colpo, dopo aver condotto la storia fino a quel punto.

E il fatto è che non posso non pensarci a quella sensazione, e a quel finale. Ci penso quando prendo in braccio la figlia di mio cugino e sento tutt* intorno a me dire “ci sei portata”, o quando torno a trovare i miei parenti e uno di loro grida “allora, sei incinta?” e mia madre bisbiglia un “magari”.

Fatti levare le ovaie, allora. Così non rischi di ammazzare nessuno.

Ci penso quando vedo il diritto all’aborto negato, ostacolato, dato per scontato, raccontato come un qualcosa di atroce solo per spaventare, per provare o suscitare piacere dall’immagine del dolore altrui. Ci penso quando nel gruppo di Libera di Abortire della mia regione un* di noi chiede aiuto perché spaventat*, nel panico, priv* di riferimenti, e le uniche persone che sembrano volerl* veramente aiutare sono quello scarso centinaio che leggono i suoi messaggi, e che cercano di guidarl* e di dare conforto. Ci penso quando mi viene data dell’egoista quando dico candidamente che non voglio fare figl*, e che se mi scoprissi incinta farei di tutto per interrompere la gravidanza; e allora mi sento dare del mostro.

Non posso pensarmi carnefice di un’esistenza. Non sono in grado di sopportarne il peso. Perché alla prima parola, al primo atto di coscienza di sé che mi verrebbe rivolto io inizierei a soffocare in un mare d’aria.

#LiveTheRebellion