Nel mondo digitale, negli anni ’90, nasce un fenomeno denominato “clan”. Il termine “clan” deriva dal gaelico e significa famiglia, tribù, inteso come gruppo familiare e sociale. E, in questo nostro contesto, possiamo dire che non si allontana dal suo significato originale, pur adattandosi ad un metodo e un contesto decisamente diverso.

In senso lato possiamo definire il clan come un gruppo di persone che si riunisce e partecipa alla stessa sessione di gioco. Il verbo “riunire” è inteso sia in senso fisico e concreto, proprio perché le prime forme di aggregazione nascono da eventi della vita reale, sia riferito ad una realtà virtuale, di pari passo con la tecnologia del momento, ovvero la trasmissione dei dati via LAN.

Più computer, che formano gruppi connessi in locale e gruppi di persone che si incontrano online, in virtù di un sempre più conclamato processo di globalizzazione e abbattimento delle barriere del digital divide. Tutto attraverso il gioco, che si fa così strumento di aggregazione per eccellenza.

Un contributo importante all’espansione dei clan, così come li conosciamo noi oggi, lo ha dato QUAKE. Il titolo, della iD Software, in quel periodo, ha fatto da volano alla modalità multiplayer, dedicando espansioni e aggiornamenti, fornendo ai videogiocatori funzioni più utili proprio al comparto multiplayer online. 

Foto del lancio di QuakeWorld – 19 settembre 1996

Per approfondire:
Quake Champions
E da questa unione di persone, di singoli, si crea la struttura di una nuova identità. Un’identità gruppale, che espone il proprio manifesto con un nome, un’etichetta “TAG” che viene inserita prima del nome del videogiocatore. Questa denominazione si configura come il primo segno visibile di appartenenza ad un gruppo

È qualcosa di veramente importante per chi vi appartiene. Esporre il TAG conferisce un sentimento di appartenenza, ritenuto tanto rilevante che, ormai, anche i programmatori dei videogiochi hanno perfezionato l’utilizzo delle TAG CLAN.

Il videogiocatore porta fiero questa etichetta, in giro per la rete ma anche quando è in solitaria. In qualche modo, con essa inizia a modificare la propria percezione individuale e si trova a sperimentare una nuova modalità per definire sé stesso.

E quando il clan è attivo accade che le azioni e le percezioni iniziano a cambiare. Il videogiocatore si adopera per il proprio clan, passa più tempo nel suo gruppo. Questo meccanismo di aggregazione comincia a manifestarsi non più solo nelle sessioni di gioco, ma anche semplicemente come diversivo al trascorrere del tempo.

Anch’io ho avuto l’esperienza di appartenere ad un clan. Preparazioni, allenamenti, simulazioni, partite random. E quando non si giocava ci si intratteneva lo stesso tramite chat o sul forum di appartenenza con sentimenti e vissuti in grado di alimentare il legame tra i membri. Tutte queste attività partecipative avevano, ed hanno, uno scopo ultimo: le Clan War, clan contro clan, gruppi contro gruppi. Oggi l’evoluzione del clan si chiama team eSport.

Ma esistono dei punti di contatto tra gruppi reali e gruppi virtuali?

La risposta è si: le dinamiche dei gruppi “virtuali” hanno delle basi comuni con i gruppi “reali”. Succede che tra questi gruppi, si sprigionano forze e si innescano meccanismi di azione dentro e fuori dal campo/territorio identificato con il gruppo. Tanto nei gruppi reali, tanto nei gruppi virtuali.  

In ambito psicologico

Il gruppo è una struttura a sé in cui le proprietà sono diverse dalla somma dei singoli membri che ne fanno parte.

K. Lewin, psicologo tedesco, pioniere della psicologia sociale
Lo psicologo britannico Tajfel descrive il gruppo come luogo di acquisizione dell’identità. Nei suoi esperimenti notò che, in modo quasi spontaneo, si innescano dei processi di discriminazione e autosegregazione, una tendenza degli individui a distinguere il gruppo di appartenenza (ingroup) da quelli di non-appartenenza (outgroup). Questi processi avvengono in modo automatico, istintivo, non sono razionali, anzi, sono distorsioni che la mente usa per semplificare la realtà che fanno apparire il proprio gruppo e sé stessi migliore degli altri.  

Lo psicologo sociale polacco/statunitense Solomon Asch condusse un importante esperimento, divenuto poi il punto di riferimento per gli studi sull’influenza sociale. Un gruppo di studenti doveva rispondere a dei quesiti di natura visiva in cui si richiedeva di accoppiare delle linee. Il livello di difficoltà era molto basso, quasi inesistente, la risposta era palese in tutte le presentazioni di accoppiamento, eppure il 37% dei volontari sbagliò le risposte… come mai? Perché si conformarono alle risposte degli altri partecipanti presenti alla prova, complici dello sperimentatore, che avevano dato la risposta errata (ma concordata) per primi, rispetto ai soggetti non complici. 

Questo esperimento è stato eseguito in diverse varianti e ha portato alla luce altri risultati interessanti per lo studio dei gruppi. Secondo Asch la tendenza ad esprimere comportamenti in linea con quelli del gruppo è dovuta al bisogno di sentirsi inclusi nel gruppo

Il tema dei gruppi è ancora molto ampio, ad esempio sono state studiate le fasi che lo attraversano determinandone la crescita e la maturazione, le formazioni di sottogruppi, i leader, i vari profili degli appartenenti ai gruppi. Di particolare interesse sono le modalità gruppali di essere, come esse influiscono nel gruppo e su diversi gruppi e tanto altro ancora. 

Ma, prima di tutte queste dinamiche, prima ancora della formazione di qualsivoglia aggregato, c’è un bisogno innato dell’uomo, reale e virtuale: essere riconosciuti ed accettati dagli altri.

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