Faccio una premessa: non ho giocato Elden Ring. Non c’è stata la possibilità di avere un codice da Bandai Namco, né avrò modo di partecipare al Network Test. Nessun problema, non avrei comunque avuto il tempo di starci dietro, in più perché privarsi del senso di scoperta del gioco completo? E poi, ecco, tanto era acerbo, ne son sicuro. Ma mettendo da parte l’estro fiabesco proprio delle volpi rimaste a bocca asciutta, non credo nemmeno che l’averci giocato sia così importante al fine di questo pezzo. Perché il discorso che voglio provare ad affrontare non si basa su cosa effettivamente Elden Ring è – e sarà – ma su come parte del pubblico stia recependo la volontà e la natura di questo titolo.
Dopo il gameplay reveal in cui From Software ha mostrato quindici minuti di gioco, è nato un consistente chiacchiericcio a riguardo dell’innovazione al genere soulslike apportata da Elden Ring e di come, al netto della struttura open world, non fosse poi così marcata. E che tutto sommato sia pure giusto, massì dai, vabbenecosì. Un’opinione che non condivido – anche nel mondo in cui viene comunicata – ma che rispetto e di cui mi piacerebbe parlare con calma, magari sorseggiando una buona bevanda.
Partiamo da un presupposto, leggere o sentire che “Elden Ring è semplicemente Dark Souls open world” per me ha un suono tipo “È un classico discorso di Adinolfi, ma senza la morale catto-fascista sotto”. Ovvero: inserire l’open world in un soulslike cambia totalmente la struttura del genere. Ed è pur vero che il soulslike è un tipo di gioco quasi impossibile da imbrigliare, difficilissimo da definire e “etichettare”. Ma è anche vero che uno dei pochi punti su cui si può essere d’accordo è proprio il level design. Chiuso ma ricco di diramazioni e scorciatoie, strizzando fortemente l’occhio all’ossatura delle mappe di un metroidvania, sebbene si esplori in maniera differente. Di conseguenza la deriva open world di Elden Ring non può essere recepita con una scrollata di spalle, quando si parla di innovazione.
Il risultato finale – ovviamente – non si conosce, per cui non si può stabilire in questo momento se l’esperimento di From Software sia riuscito o meno, se il bilanciamento dell’esperienza sia solido o vittima della dispersività propria di una mappa con blande limitazioni. Zone vaste significano avere più spazio di manovra negli scontri per esempio. Significa una differente curva di difficoltà, perché si offre al giocatore una maggiore libertà sulle strade da intraprendere. Ma anche ritmi diversi, obiettivi diversi. Non solo il giocatore può esplorare ma deve esplorare. Di conseguenza i ritmi fra un boss e l’altro, o una zona e l’altra, saranno più compassati e scanditi da differenti tipi di ricompensa, fra cui uno pressoché mai visto all’interno dei soulsborne. Se trovare un’arma, un set, o un NPC fa parte del “sense of wonder” proprio del genere, imbattersi in aree totalmente accessorie, con boss annessi, lo è molto meno.
Non che non sia capitato, la Vetta dell’Arcidrago di Dark Souls 3 è testimonianza di questo tipo di ricompensa ma rimane un caso isolato. In Elden Ring invece ogni anfratto è potenzialmente culla di una nuova scoperta. Un dungeon, un boss, una nuova porzione di mappa. Non è innovativo a livello intrinseco ovviamente, ma è eccezionalmente nuovo per un souls. Può rimanere il timore che non funzioni, che dopo una decina di ore il gioco si accartocci su sé stesso. Ed è assolutamente lecito, è anzi la grande incognita della produzione credo. Ma definire Elden Ring poco innovativo per il suo genere di appartenenza, credo sia estremamente miope.
Forse è la fretta di battere i caratteri sulla tastiera, la voglia di discutere prematuramente, rimanendo su un tema di tendenza. Forse è sintomo della bulimia che ci porta non solo a giocare tutto e in poco tempo, ma anche a commentare e discutere, senza aver digerito quello che si è visto, si è letto, si è giocato.
Arte accessoria
Ecco un altro presupposto, sentire lamentele sulla fiacchezza tecnica di un gioco con l’art direction di Elden Ring, mi ammorba. Perché per carità, alcune animazioni e suoni sono sempre gli stessi, è vero, e il riciclo di asset non si ferma certo lì, ma è davvero così importante? Tolto il fatto che le animazioni che contavano, son cambiate davvero. Non voglio difendere questi “ritorni” come precise scelte di design – anche se ammetto di esserci in parte affezionato – che pur essendo ormai iconici, necessiterebbero un ammodernamento. Al tempo stesso, in un’industria in cui grossi publisher offrono sempre meno innovazione, soggiogati dal modello cookie-cutter che contraddistingue l’industria dei titoli tripla A, non si può rimanere impassibili di fronte all’estetica di Elden Ring. E non si può nemmeno relegarla a qualcosa di banale, di dovuto, perché “sì lo sappiamo che quello sanno farlo”.
Non è scontato. Soprattutto visto che ci si riempie continuamente la bocca su quanto il videogioco sia arte. E poi l’arte si prende sempre la porta in faccia. Forse pecco di romanticismo ma continuo a pensare che nel tempo, la tecnica passa ma l’arte rimane. Soprattutto in questo media, che invecchia a una velocità impressionante. Sono passate quasi due settimane dall’ultimo trailer di Elden Ring e il design di Godric ce l’ho inchiodato ancora sulle retine. Ed ecco l’altra innovazione di From Software, quella stilistica, che non si è mai fermata ed è sempre riuscita a offrire qualcosa di nuovo. Continuando a sorprendere, a lasciare meravigliati scoprendo una nuova zona. Scendere dalla carrozza davanti al castello di Cainhurst, scorgere Irythill in lontananza, entrare nel mondo di Ariamis.
Sono state tutte esperienze che artisticamente hanno lasciato un segno, non sempre sorrette da un livello tecnico adeguato, anzi. Eppure, in ogni occasione ho appoggiato il pad per qualche istante, ammirando lo scenario di fronte. E sebbene la tecnica spalleggi l’arte, spesso l’arte divora la tecnica.
Anche se l’articolo è praticamente finito, ultimo presupposto: in realtà Elden Ring l’ho giocato. Ho scritto questo pezzo in due tempi ed ero convinto che non avrei messo mano al Network Test ma poi mi è stato donato un codice. Ho voluto lasciare la stessa introduzione perché credo comunque che questo discorso non abbia bisogno di esser sostenuto da una prova giocata. E poi sapete quanto è difficile scrivere il primo paragrafo per un qualsiasi articolo? È letteralmente la parte peggiore, tutto il resto poi fluisce senza problemi o quasi, almeno per me. Ma sto divagando. Non spenderò le ultime righe a dire che Elden Ring è una bomba, che quanto visto nel Network Test fa presagire che l’innesto open world non sia solo funzionale ma anche perfettamente coerente con il genere.
Non voglio soffermarmi su questo perché non è importante ai fini di questo speciale, ma soprattutto perché è troppo relativo. Oggi Elden Ring funziona, è vero. Non è detto che il titolo completo, con una mappa intera e di conseguenza immensamente più ampia, funzioni ugualmente però. Non è nemmeno detto che giocare per circa dieci ore a singhiozzo e a orari improponibili porti a un’analisi corretta. L’unica, vera, considerazione che mi sento di lasciare è che la rottura dell’anello potrebbe essere un messaggio che Miyazaki vuole trasmetterci. Forse vedo del meta-game laddove non c’è o forse è involontario.
Nella mitologia norrena gli dèi avvolgono e cingono il mondo con l’oceano, creando un anello d’acqua profondo e impervio da superare. Elden Ring non è solo l’innovazione del genere ma ne è anche la sua rottura. From Software decide di spezzare l’anello produttivo che gli avrebbe permesso di creare un’altra dozzina di Souls dalla struttura ricalcata. Una nuova sfida che non solo stravolge il genere ma lo porta vicino alla distruzione. Cerca il sentiero del cambiamento. Non è sicuro che Elden Ring sia un capolavoro, non è nemmeno detto che sia un titolo pienamente riuscito. Ma è innovativo perché prova a fare quello che nessuno prova a fare: mettersi in discussione. Mettersi in gioco.
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