Sono di recente usciti fuori dei dati interni a Capcom con diverse novità per il mondo dei videogiochi. Il prezzo però è salato e non è sempre tutto rosa e fiori. Soprattutto quando si parla di crimini.

Siamo stati i primi a festeggiare quando gli sviluppatori di Aeon Must Die, un gioco sviluppato sotto abusi e poi derubato ai loro creatori, hanno platealmente denunciato ciò che hanno subito. Leak che mostravano nomi e cognomi dei responsabili. Tutto ciò che avevano fatto. Documenti riservati che mostravano il modo in cui sono stati trattati. Eppure è sempre più complesso di così. Non esistono buoni e cattivi, nel mondo reale. Credevo che almeno i videogiochi potessero farcelo capire.

Quello che è successo alla sede di Capcom è qualcosa che mi ha fatto riflettere. È un “leak”, e allo stesso tempo non lo è. Le virgolette non sono messe per caso. Quello che avete davanti è un’illusione. Perché è facile battere il ferro finché è caldo, ma è difficile ricordarsi del passato. Soprattutto quando le notizie viaggiano a velocità quasi impossibili da seguire senza avere degli impianti futuristici. Dimentichiamo di verificare le fonti. I volti dei politici si deformano, come un pongo, per adattarsi a ciò che si crede di loro sul momento. Ma il capolinea non è ancora lì. Abbiamo ancora tanta strada da fare.

Si viaggia, finché non si finisce per credere anche a delle ombre. Dopotutto, i leak sono solo il volere dei giocatori.

C’è bisogno di vedere la luna, non il dito

A parlare di questa situazione è stato TheGamer, un noto portale americano, che titola “Video Game Leaks From Hackers Are Nothing To Get Excited About” (“I leak videoludici compiuti da hacker non sono cose per cui essere contenti”). Si parla del caso di Capcom, e dell’esperienza personale del redattore che ha perso tutta la gioia di un annuncio venendo a sapere come il leak di Capcom sia stato portato a compimento.

Per chi non lo sapesse, di recente un gruppo di hacker si è infiltrato nei database della compagnia giapponese, facendo fuoriuscire una valanga di dati sul web. Informazioni private. Annunci che non erano ancora stati rilasciati. Nuovi videogiochi sul tavolo, da aspettare e per cui avere hype. A costo però dell’identità di ben 350.000 dipendenti. Mentre i videogiocatori facevano festa. Celebrano i “vincitori“, quelli che hanno dimostrato il volere dei giocatori. Che si sono imposti su un’azienda perché non ne condividevano le mosse. L’arma che hanno usato è però un crimine. Non stiamo parlando di un leak interno.

Sembra la storia di un bimbo viziato. Viziato da una cultura tossica come quella dell’hype, che soffoca ragionamenti sensati, opinioni e rende social come Twitter una palude. Ci basti pensare a come sia abbastanza dare un voto basso a un gioco che piace alla community per ricevere insulti e minacce di morte. Allora non serve arrivare in fondo alle questioni, alla loro radice. Non serve capire cosa succede, davvero, dietro alle quinte. Ci si impone, sapendo di essere nel giusto.

Voi vi siete chiesti chi era davvero dietro ai leak di The Last of Us II o Nintendo? In verità, neanche io sapevo che si trattasse di criminali. Anche se lo sono stati fin dall'inizio.

Un’illusione spacciata come verità

Forse sbagliamo un po’ tutti. Io in primis, che non vado a informarmi. Che non so che dietro al leak di Nintendo ci fosse un pedofilo che ha ingannato un dipendente per accedere ai server. Ma credo che il problema sia ancora più a fondo, sotterrato dalla miriade di bugie. Perché, in verità, i videogiocatori ascoltano quello che vogliono sentirsi dire. La stampa tace, perché la bufera è finita. Tanto vale adattarsi al pensiero comune. Fa bene alla coscienza pensare che dietro ai leak di The Last of Us II ci sia un dipendente arrabbiato e non un cyber-attacco perpetrato da quelli che sono dei semplici hacker.

A pagarne sono proprio quegli sviluppatori che pensiamo di difendere. Che oltre al “normale” crunch – che a quanto pare premiamo – devono preoccuparsi per le informazioni della propria famiglia. Della propria carta di credito. O di ricevere minacce da fan arrabbiati. Mentre i giocatori pensano di combattere le compagnie, stanno distruggendo la vita di individui che fanno già fatica a restare a galla da soli.

Questa è la stessa cultura che ha permesso che l'incendio alla KyoAni accadesse. Un fan che entra a lamentarsi per delle sue illusioni, e finisce con l'uccidere 33 persone.

C’è ancora bisogna di consapevolezza. C’è bisogno di capirci, tra noi videogiocatori. C’è bisogno di capire che internet non è il nostro regno esclusivo. Che le cose non ci sono dovute, e anche quando decidono di rendere un gioco più accessibile non possiamo andare a minacciare delle persone perché non rispettano i nostri desideri. C’è un corso naturale e sano delle cose, e limiti che non dovremmo oltrepassare. Quello che stiamo fomentando è una dittatura del videogiocatore arrabbiato. Che impone a dei lavoratori come agire per non ricevere minacce.

Questa volta è Capcom a subirne le conseguenze. Domani, potremmo ritrovarci a vedere la fine di un’era in cui al giocatore è tutto dovuto. Ma di nuovo, non sarà una finale alla “vissero tutti felici e contenti”, quanto più un esplosione.

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