Di recente ho finito di guardare l’ultima produzione di Netflix High Score, una docuserie incentrata sul mondo videoludico a tutto tondo, negli anni che intercorrono tra l’uscita di Space Invaders e Doom. Ho trovato la serie davvero interessante perché, a differenza di altri documentari dall’impronta più storica, fa una panoramica su chi quel mondo lo ha vissuto veramente, giocatori e sviluppatori. E ho trovato davvero incredibile come il lavoro nell’industria dei videogiochi fosse così rigoglioso già nei lontani anni ’70. Già all’epoca non vi erano solamente gli sviluppatori, i quali iniziavano a diversificarsi nelle diverse professioni (programmatori, 2D/3D artist, designer …). Vi erano anche tutta una serie di diverse figure professionali che ruotavano attorno all’industria.
Particolarmente interessante ho trovato la storia di Shaun Bloom, che per guadagnarsi da vivere faceva il consulente di videogiochi alla Nintendo. Ogni giorno parlava con decine e decine di videogiocatori, aiutandoli a superare i difficili livelli che i titoli della grande N offrivano a quel tempo. Gli sembrava incredibile di poter svolgere quel lavoro, afferma nell’intervista, il sogno di una vita. Ma come quella di Shaun, vi erano decine di altre professioni che lavoravano grazie ai videogiochi, un mercato talmente florido da conoscere pochissime crisi. Tutto questo negli Stati Uniti e in Giappone ovviamente.
Un compatto dispositivo dequalificante
E in Italia? Ancora oggi purtroppo, ben 50 anni dopo gli eventi di High Score, accostare la parola lavoro ai videogiochi è considerato un atto di blasfemia, se non di vaneggiamento utopico. I motivi per questa arretratezza culturale sono molteplici e necessiterebbero una disamina a parte. Sta di fatto che nel nostro Bel Paese, resta ancorata la convinzione che i videogiochi siano solamente una mera perdita di tempo. Un passatempo atto solamente a distrarre dai propri studi e doveri quotidiani.
Se la capacità dei videogiochi di alienare momentaneamente il giocatore dal mondo che lo circonda non è assolutamente in dubbio, facendogli provare quella che gli psicologi chiamano esperienza di flusso, è altresì fallace la credenza per cui la passione videoludica non permetta di maturare conoscenze spendibili nel mondo del lavoro. Tale credenza purtroppo è figlia di un più generico problema sociale che il filosofo Eugene Fink etichettò come: compatto dispositivo dequalificante. Il gioco adulto purtroppo, sia esso videoludico, da tavolo o di altra natura, è giudicato quasi sempre in chiave negativa. Questo perché è ritenuto fonte di distrazione dai propri doveri lavorativi e sociali.
Tale visione cambia però radicalmente quando gli attori in gioco sono i bambini. Il gioco, e ultimamente anche certi tipi di videogioco, è riconosciuto come diritto imprescindibile di ogni bambino. Da esso e con esso, egli impara molto sul mondo che lo circonda e sugli altri, rimanendo sempre all’interno di un contesto protetto. Ed è qui che nasce uno dei paradossi più grandi del nostro settore. Se il gioco adulto è alienante, mentre quello del giovane è un diritto, chi li deve creare questi giochi? Adulti che non giocano? Vi fidereste mai di un cuoco che non assaggia mai i propri piatti? La risposta ovviamente è no, come non è possibile pensare che i creatori di giochi non siano loro stessi dei giocatori. È dunque chiaro che il compatto dispositivo dequalificante del gioco adulto, sia solamente una delle tante espressioni della profonda ignoranza sociale nel campo delle scienze ludiche.
Se il gioco adulto è alienante, mentre quello del bambino è un diritto, chi li deve creare questi giochi?
La tecnologia dei videogiochi come pilastro del lavoro odierno
Che lo si accetti o meno dunque, per creare giochi e videogiochi sono necessari professionisti adulti, i quali negli anni sono riusciti a trasformare la loro passione in un lavoro. Un lavoro però non alla portata di tutti, data la scarsa disponibilità di occupazione, soprattutto in Italia. Ma è solamente allo sviluppo che la nostra passione può portarci? Il mondo videoludico è dunque soltanto un circolo vizioso che si autoalimenta? Assolutamente no.
Il videogioco è da sempre sinonimo di tecnologia e innovazione, due pilastri portanti della nostra società odierna. Studiare le meraviglie tecnologiche delle nostre console casalinghe, dei nostri PC e dei capolavori che tanto amiamo, ci porta a sviluppare pian piano importanti skill, tanto richieste dalle aziende di oggi. Un esempio calzante riguarda la componentistica console e PC. Essere sempre aggiornati sugli ultimi ritrovati hardware, magari imparando da soli a comporre e ad aggiornare la propria macchina da gioco, ci permette di muovere i primi passi verso una delle professioni più diffuse oggigiorno, ovvero quella del sistemista informatico.
O ancora, per tutti coloro che hanno deciso di infilare la testa nella tana del Bianconiglio, appassionandosi ai software 3D e agli engine realtime, non vi è solo il mercato videoludico ad aspettarli. Molti sono ad oggi i lavori che necessitano di competenze simili a quelle dello sviluppo dei videogiochi. Configuratori di prodotto, planner 3D, Archiviz in VR e AR, sono solo alcuni degli innumerevoli settori che beneficiano ampiamente delle tecnologie nate per i videogiochi. Per non parlare poi della gamification, altra grade branca dove i novelli game designer possono sguazzare beatamente.
Studiare le tecnologie delle nostre console e dei dei nostri PC, ci porta a sviluppare importanti skill tanto care alle aziende di oggi
Al di là dei meri numeri
Per un genitore che discute ogni giorno con il proprio figlio sulle ore da dedicare ai videogiochi, questo discorso potrebbe sembrare surreale. Ma vi assicuro che non lo è. Chi vi scrive deve il suo attuale lavoro, un lavoro altamente specializzante e ben retribuito, alla profonda passione per i videogiochi che lo ha sempre contraddistinto. Lavorare oggi nel campo delle tecnologie 3D, nella realtà virtuale e aumentata, non è più un’utopia come lo era un tempo, anzi. Sembra incredibile a dirlo, ma il mercato ha sempre più bisogno di appassionati di tecnologie videoludiche.
Ma dopo aver speso tutte queste parole per giustificare questa nostra passione, una sola domanda mi giunge infine. Era davvero necessario? È davvero ancora necessario ridurre questo nostro grande amore ai numeri che compongono la nostra busta paga? Spero proprio di no. Spero davvero che tutta questa enorme elucubrazione, sia solo la giustificazione di un ormai trentenne, che da adolescente si vergognava a comprare Giochi per il mio computer per leggere la sezione tech. Perché se ancora non ci siamo accorti di quanto i videogiochi ci possano insegnare oltre alla mera tecnologia, significa che non li abbiamo mai giocati veramente.
Significa che non abbiamo ancora capito quanto essi siano veicolo di profondi sentimenti umani, come ogni altra arte dell’uomo.
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