Pietro Iacullo

Speciale Death Stranding: UCA Coast to Coast – capitolo 1

Diario di viaggio in Death Stranding,
Capitolo 1

Il capitolo 1 di Death Stranding è spossante. Di tutte le sensazioni che il gioco trasmette, nelle prime ore a prevalere è la fatica. Non quella che il giocatore condivide con Sam, quella alla fine è solo una delle tante barre da monitorare in tempo reale, su uno schermo che in tempo reale mostra anche dettagli (che poi tali non sono) come lo stato della vescica del protagonista.
No, è una fatica diversa. Una fatica Single Player, in un gioco dove non si è mai soli per davvero. La fatica di chi per anni ha giocato vestendo i panni di un superuomo e adesso invece controlla una persona (quasi) normale. E le conseguenze sono tragiche.

Chi ha le scarpe può andare in giro a trovar da mangiare, mentre non vale l'inverso
– Primo Levi, La tregua

Siamo abituati a poter andare ovunque, dentro i Blu-Ray che infiliamo nella console. Gratis, senza sbatterci nemmeno troppo. Vogliamo andare su quella montagna e cascasse il mondo ci andiamo, comporta solo perdere un po’ di tempo. Ecco, in Death Stranding il primo scoglio è questo: ogni movimento costa. Ad ogni passo gli stivali di Sam si usurano, e se arrivano al punto di rottura poi si consumerà più vigore per spostarsi (oltre a ferirsi). Ma non basta: ogni passo che si fa, per consegnare o per il semplice e scellerato gusto dell’esplorazione, comporta il rischio di rimanere sotto la pioggia. Piccolo dettaglio: la pioggia in Death Stranding è Cronopioggia, e fa invecchiare quello su cui scroscia. Tradotto: il carico che state trasportando si deteriora man mano che l’acqua scende.

Aggiungeteci il fatto che Sam deve mantenersi in equilibrio costantemente mentre cammina, spostando il peso da una spalla all’altra ed evitando il più possibile cadute e inciampi, ed ecco che in Death Stranding, nel capitolo 1 di Death Stranding, il giocatore fa molta più fatica di Sam. Non è abituato, deve muoversi come si muoverebbe nel mondo vero.

È uno scenario molto poco ludico e straniante, come era successo al massimo solo un altro paio di volte in una produzione maggiore. Il risultato? Death Stranding è un gioco dei contrari, dove il capitolo 1 – quello su cui mediamente un team investe più budget – affatica chi sta davanti allo schermo più di chi gli sta dentro. Si è parlato di Amazon Simulator, si sono fatte battutine su Bartolini e Deliveroo, ma la verità è che Kojima Production è stata più drastica: è un simulatore di apocalisse. E proprio per questo aggredisce a brutto muso chi sta giocando.

Death Stranding è un'esperienza verosimile che parla a chi è abituato ad essere Superman

È una cosa, questa dell’essere un uomo normale in una situazione abbastanza credibile (se il Death Stranding colpisse anche noi, le cose grossomodo andrebbero così), che va anche oltre il primo capitolo. Ancora adesso, arrivato al terzo, a volte ragiono ancora come in uno degli open world usciti negli ultimi anni e poi mi fermo. Perché in Death Stranding fare quella cosa sarebbe suicida, non puoi permetterti di usare la moto per buttarti giù da uno strapiombo o raccogliere tutto quello che trovi in giro. Nessun inventario alla Doraemon a cui gli RPG ci hanno abituato, nessuna fisica dei mezzi (o dei cavalli) da abusare per crearsi delle scorciatoie. Death Stranding non fa sconti, ogni movimento pesa. Non è un gioco divertente nel senso tradizionale. Forse non è direttamente nemmeno un gioco, nel senso tradizionale. Un Neon Genesis Evangelion pad alla mano.

Ma quantomeno l’antifona era chiara già da ben prima del day one…

#LiveTheRebellion