Recentemente mi sono trovato a leggere un fumetto. Mi venne regalato a natale 2016, poco dopo l’inizio dell’università. Lo lessi all’epoca, ma con l’ansia degli esami finì subito nel dimenticatoio. Il fumetto in questione è “La Quarta Variazione“, di Albhey Longo, classe 1993, pubblicato da Bao Publinshing nel 2016.

Il fumetto racconta la vita di Marco, un ragazzo che si destreggia tra amici, genitori e tanta indecisione, tutto questo con la maturità alle porte. So cosa state pensando: “Ma questo sito si chiama I Love Videogames, perché qui si parla di fumetti e non di videogiochi!!!” Tranquilli, arriviamo anche lì. Sia io – nato nel 1997 – che lui, facciamo parte di quella categoria sociale che, almeno al tempo della stesura di questo pezzo, viene denominata in vari modi: pischelli, regazzini… insomma, gente che ha accumulato un pò di esperienza sulle spalle, ma che ne ha ancora da maturare.

Un fumetto di formazione
Vedo di darvi un’idea del fumetto in questione: si potrebbe porre nella macro-categoria dei racconti di formazione: un protagonista, attraverso mille peripezie, compie un processo di crescita personale, che lo porta a cambiare, a maturare. Ed è proprio sul maturare, sul “trovare la propria strada“, che si focalizza il fumetto.

Il povero Marco infatti deve fare la maturità e – come nelle migliori sceneggiature di David Cage – si trova un sacco di persone che dubitano di lui, tra cui per primo c’è sempre sé stesso: vorrebbe fare l’artista ma tutti gli dicono di smettere di sognare, tuttavia lui continua imperterrito, anche se tra mille dubbi. Il tutto è rafforzato anche da riferimenti a specifici prodotti di animazione basati sul disagio adolescenziale ovvero la sconosciuta serie di Mtv Daria e l’imperituro Evangelion. Così arriviamo al momento di spannung, quando Marco tira un pugnone in faccia ad un tizio che gli dice “di smetterla di dire cavolate e che tuo padre è dottore, approfitta della sua posizione, fare l’artista non paga…

BAM!
Dopo mille disavventure, il nostro Marco guadagna la tanto agognata fiducia in sé stesso, finendo ad ascoltare, solo e finalmente, la voce della sua coscienza sopra tutte le altre. Al momento del pugnone, infatti, il protagonista riesce a capitalizzare l’esperienza che ha guadagnato fino a quel momento e diventare sicuro di sé stesso, e come diremmo noi videogiocatori “sale di livello, livella“.

Se questo fosse Undertale: Marco fills himself with determination.

E qui veniamo a noi, cari miei: i tanto agognati punti EXP, l’aumento della statistica per l’arma più tosta… insomma, l’esperienza. Come si presenta l’esperienza nei videogiochi? E’ sinonimo di crescita? Come ci relazioniamo, noi videogiocatori ingordi, con l’esperienza?

L’accumulo di esperienza nel medium videoludico è qualcosa a cui ambiamo tutti ed essa può sintetizzata in una frase di Oscar Wilde:

Esperienza è il nome che ciascuno dà ai propri errori.

Il caro vecchio trial and error, eh Oscar? Beh, del resto sbagliando s’impara…

Gotta experience ‘em all
La relazione più ovvia che possiamo insturare con l’esperienza sta senza dubbio negli RPG, cito per comodità Pokémon. Essa si presenta come qualcosa dalla natura quasi fisica: i punti exp. L’obiettivo è prenderne i più possibile, il meccanismo è semplice: capire quali attacchi sono efficaci contro quel determinato tipo di Pokemon.

I nostri mostriciattoli colorati si prenderanno sonoramente a legnate per crescere, diventare più forti ed infine evolversi. Il giocatore qui impara poco, combattere ad un certo punto diventa quasi qualcosa di meccanismo. Comunque già qui possiamo fare un ragionamento: vedere metaforicamente le evoluzioni dei Pokémon come il passaggio dall’infanzia all’età adulta….

… non mi pare neanche così difficile. L’esperienza infatti, proprio come se fossimo dei Pokémon, ci cambia, ci trasforma, ci rende, appunto, esperti, ci fa venire la proverbiale pellaccia. Come Charmilion che dopo mille combattimenti e mille nemici sconfitti diventa Charlizard, Bruce Willis dopo mille Die Hard diventa Bruce Cattivo e Pelato

Fare esperienza quindi vuol dire sopratutto cambiare. 


Esperienza tra Corpo e Psiche
Il cambiamento si nota sopratutto nella nostra conformazione fisica, è in questa dimensione che facciamo – e ci vengono fatte – le cose più eclatanti. Si può vedere lo stesso “fare esperienza” come un enorme ed infinita pubertà, che ci continua ad “aggiornare” fisicamente. Spesso siamo proprio noi che segniamo il nostro corpo per dimostrare – in primo luogo a noi stessi – che non siamo più dei poppanti.

Che sia un semplice cambio d’abiti, come Sora all’inizio di Kingdom Hearts II, il tingersi i capelli, il primo tatuaggio/piercing, i segni dell’esperienza permarranno sul nostro corpo e ce li porteremo sempre dietro. Questi segni d’ora in poi li chiameremo interventi estetici, proprio in funzione di come influiscono sul nostro aspetto e di come, più in generale, essi spesso siano quello che ci rimane di esperienze di vita.

Spesso questi interventi estetici possono anche venirci inflitti da un agente esterno, senza il nostro accordo e totalmente contro la nostra volontà. Il solo atto di rivederli spesso riporta alla luce esperienze che avremmo volentieri dimenticato. E qui entriamo a gamba tesa nella sfera della psiche, del resto Mente e Corpo sono fortemente collegati. E qui non posso che citare il buon Snake e la sua benda sull’occhio.

Snake Eater: Traumi e Crescita

Come sappiamo, Snake viene accecato da suo mentore, The Boss, che deve provare la sua fedeltà al malvagio e fotovoltaico colonnello Volgin, in uno dei momenti più tesi di di MGS3. E’ un momento traumatico. In quel momento Snake comprende davvero il suo mentore e capisce che lei è pronta a tutto, anche uccidere il suo pupillo, per portare avanti i suoi ideali. Il prossimo passo è la morte, o sua o di The Boss. Per tornare al pugno in faccia della Quarta Variazione possiamo dire che, con l’esperienza della perdita dell’occhio, Snake “fills [himself] with determination“. Una sorta di epifania: fino a quel momento infatti Snake si era rifiutato di considerare il suo maestro come un disertore. Il trauma dell’occhio spinge – quasi ironicamente – a riconoscere il suo Boss per ciò che ella è davvero: un traditore. Il futuro Big Boss da quel momento incomincerà a giocare seriamente, arrivando infine ad uccidere il suo maestro.

Sì, sto paragonando un capolavoro videoludico ad un fumetto italiano semi-sconosciuto, ma aspettate prima di tirare fuori i forconi. Riflettete piuttosto su come il significato dell’esperienza accumulata nei due casi è di segno radicalmente opposto: nella Quarta Variazione Marco arriva a credere in sé stesso, Snake invece uccidendo il suo mentore verrà distrutto dai dubbi e dal rimorso.

Esperienze che danno, esperienze che tolgono.
E’ possibile identificare, nell’economia della crescita del nostro protagonista, il prologo di Snake Eater come l’infanzia di Snake: una condizione segnata da un rapporto stretto – probabilmente anche amoroso – con The Boss, ma anche con il governo. Il protagonista crede ciecamente, oltre che nel suo mentore, anche nel suo governo e negli ordini che gli vengono dati. Queste certezze verranno distrutte da Master Kojima a suon di colpi di scena e di legnate – tra cui torna anche il trauma dell’occhio – per arrivare, alla fine, ad uno Snake “adulto“, disilluso, che ha perso ogni punto di riferimento, oltre la che la fiducia nel suo paese. E’ proprio questa disillusione che lo spingerà a diventare l’antieroe apolide dei capitoli successivi.

Il nostro Big Boss dimostra apertamente sul suo corpo che crescere, quindi guadagnare esperienza, fa male, anzi malissimo.

Esistono giochi dove poi il guadagnare esperienza non coinvolge solamente il PG di turno, ma soprattutto noi che lo stiamo manovrando. Certo, in ogni gioco effettivamente facciamo un’esperienza, molto banalmente, per il solo fatto di giocare. Tuttavia esistono giochi che ti rimangono addosso, di cui, come i ricordi di guerra, non ti liberi. Cosa succede se ogni singolo elemento del gioco è lì per ammazzarti? Cosa succede alla tua personale esperienza? Succede Dark Souls.

Esperienza e Morte
Dark Souls è l’esempio perfetto. Il primo capitolo della trilogia targata From Software si apre con un “tutorial” che può essere ancora paragonato al momento dell’infanzia: il momento in cui di esperienza, in quanto poppanti, non ne abbiamo. Uscendo dalla sua cella, il Non-morto Prescelto – e sopratutto il giocatore – incomincia uno scarnissimo non-tutorial, che insegna poco o nulla. La condizione del giocatore è quella dei giovani spartani abbandonati nei boschi durante il rito dell’agoghé: o impari a cavartela o muori. E come ben sappiamo moriremo, moriremo e moriremo, prima di imparare a cavarcela.

Dio non guarderà in voi le medaglie, lauree o diplomi, ma le cicatrici.
Una cosa che vale la pena notare, nell’economia del rapporto giocatore-ambiente di gioco, è che il prescelto non morto, a differenza, per esempio, del sopracitato Snake, non ha una personalità. E’ praticamente trasparente, un mero ricettacolo tra il mondo dei non-morti e il giocatore. Questo fa sì che tutte le sventure che gli accadono, le subiamo noi in prima persona. A venire uccisi siamo proprio noi.

Per andare avanti in Dark Soul dobbiamo – neanche troppo metaforicamente – fare tesoro dell’esperienza, fare tesoro di tutto quello che raccogliamo, leggiamo e vediamo. Quella è l’unica sicurezza che abbiamo per riuscire ad arrivare alla fine. L’ambiente ci è ostile, nessuno è li per aiutarci, i personaggi non ci cacano di striscio. A giocare siamo solo noi che facciamo bottino dell’esperienza e che andiamo in bocca alla Morte.

Uno dei luoghi simbolo di questa vera e propria tesaurizzazione dell’esperienza è la Fortezza di Sen. Per fare questa sezione la prima volta ci avevo messo un numero di ore infinito, tipo 7 o 8. La difficoltà qui schizza alle stelle, altro che Demone Capra. Ogni cosa è potenzialmente letale: gli uomini serpente, lame dal soffitto, mimic, enormi sassi rotolanti e giganti incazzati. Morivo più o meno ogni 3 passi – GIT GUD! – ma imperterrito e inesorabile continuavo ad avanzare.

Piano piano, andavo avanti, proprio in virtù dell’esperienza che gradualmente accumulavo – sia sotto forma di anime – ma sopratutto sotto forma di conoscenza. Capivo i pattern dei nemici, la posizione delle trappole.

Giocare a Dark Souls, e in generale videogiocare, è proprio questo:

Va bene perdere, ma non perdere la lezione che hai appena imparato.

Dal punto di vista del game design non è un caso che la Fortezza di Sen, grande ricettacolo di esperienza e morte, sia posta appena prima di Anor Londo, la città degli Dei, il luogo dove solo i più forti – i più esperti – possono entrare. La Fortezza di Sen è un vero rito di passaggio, un luogo dove, come i ragazzini spartani, il giocatore novizio, in virtù della sua esperienza faticosamente acquisita, livella nelle conoscenza, diventando abile e per tanto degno di entrare nella Città degli Dei.

Tutto questo è vissuto non tanto dal nostro PG, ma da noi. Metaforicamente sono le nostre dita, i nostri riflessi, la nostra memoria, che sono stati affinati dalle difficoltà per permetterci di superare la Fortezza e di accedere ad un grado di conoscenza “divino”: abbiamo scoperto mosse nascoste, abbiamo trovato Falò segreti, abbiamo capito i pattern dei nemici, abbiamo trovato tesori increbili. Tutto questo l’abbiamo esperito noi con il joystick in mano.

Non a caso la difficoltà di un gioco è direttamente proporzionale allo snobismo dei fan, proprio perché dopo essersi fatti “un mazzo tanto“, guardano con ribrezzo chi non è in grado di fare i parry, sconfiggere il boss ecc ecc. Sta tutto nell’esperienza.

Per tirare le fila: l’esperienza è qualcosa che coinvolge tutto il mondo videoludico, che fa crescere i nostri simulacri sia fisicamente (>Pokémon) sia psicologicamente (>Snake) , fa soffrire i nostri simulacri (>Dark Souls), fa crescere noi videogiocatori, fa soffrire noi videogiocatori (>tutti i giochi sopra).

L’esperienza è l’insegnante più difficile. Prima ti fa l’esame poi ti spiega la lezione.

Quindi quando siete schiantati sull’ennesimo boss impossibile, non prendetevela troppo male. Anche se avete perso tutto il loot, tutti i soldi, tutti i punti EXP, comunque vi rimane sempre l’esperienza: esperienza che vi cambia, che vi fa diventare grandi, vi fa maturare. Esperienza che poi potreste passare a videogiocatori più giovani e che a loro volta passeranno.

L’esperienza è l’unico tesoro di cui nessun Demone Capra, nessun Ornstein&Smough, potrà mai privarvi.

Fatene tesoro e non abbiate paura dell’errore.

#LiveTheRebellion